“Sono molto soddisfatto perché nel capitolo relativo alla Digitalizzazione, tra le misure di incentivazione del Piano Transizione 4.0, sono stati inseriti su mia richiesta gli incentivi fiscali per gli investimenti a sostegno della trasformazione tecnologica e digitale dell’intera filiera editoriale, cosa che ritengo fondamentale perché sarà uno degli strumenti attraverso i quali potremo accompagnare l’editoria nella transizione verso il nuovo mondo”. Queste le parole del Sottosegretario di Stato alla Presidenza (Informazione ed editoria) Giuseppe Moles, a Start, su SkyTg24.
Un settore, quello dell’editoria, che secondo gli esperti riceverebbe finalmente i contributi necessari per risollevarsi dalla crisi.
Una crisi in realtà fittizia, nata dal recente stereotipo di vedere nel 2020, l’annus horribilis, il crollo di tutte le filiere del Paese. Ciò può anche trovare riscontro nella maggior parte dei settori ma non in quello dell’editoria. A dirlo sono soprattutto i numeri presentati dall’Associazione Italiana Editori, che vedono il comparto editoriale come prima industria culturale del Paese con 3 miliardi di rendita; persino le vendite del libro cartaceo – che molti vedrebbero più nei musei che nelle fiere – sono salite dello 0,3% rispetto al 2019. A ciò bisogna ovviamente sommare e-book e audiolibri – le giovani promesse – che registrano un aumento del 37% e del 94% e infine l’aumento – pronosticabile – dell’e-commerce che quasi raddoppia passando dal 27% al 43%.
Questi dati non solo smentiscono la crisi dell’anno pandemico ma mostrano come la filiera dell’editoria non è quella degli agglomerati, delle catene, dei generalisti bensì quella delle librerie (e dei librai!), dei distributori, delle case editrici indipendenti e soprattutto degli uffici stampa che, sfruttando i potentissimi social media, sono arrivati a raggiungere migliaia di persone con iniziative solidali e fruttuose. Iniziative come quella di bookdealer, la cui visione “di permettere alle singole librerie indipendenti, di quartiere, di fare massa critica e provare a competere con i grandi store on line” è risultata vincente tanto quanto quella della Confraternita dell’uva, i cui librai consegnavano i libri in bicicletta.
Non basterebbe un articolo per raccontare tutte le storie umane che hanno legato il mondo del libro a quello della pandemia e lo scopo di questo articolo non è quello di fare del qualunquismo o del pressappochismo bensì quello di trattare con mano le parole del sottosegretario nella sua visione di “transizione verso il nuovo mondo”.
Ironia vuole che nelle 270 pagine del PNRR non compaia neanche una volta la parola editoria mentre in quel fatidico 4.0 citato (e voluto) dal Sottosegretario Moles si legge finalmente la chiave di volta della filiera editoriale: “Agli incentivi saranno ammessi anche gli investimenti a sostegno della trasformazione tecnologica e digitale della filiera editoriale”.
Dopodiché il silenzio. Non v’è più una parola che faccia riferimento all’editoria.
Eppure proprio il Sottosegretario Moles, il 22 marzo 2021, in commissione cultura alla camera aveva esordito con quel: “Bisogna garantire alle imprese editoriali di non soccombere proprio nell’ultima fase dell’epidemia. Nell’ultimo anno quasi tutte le testate hanno registrato perdite anche pesanti per il calo della pubblicità e la flessione nella distribuzione”. Non propriamente tematiche correlate alla tanto voluta transizione digitale. Certo, la filiera del libro in Italia è in crisi ormai da decenni ma questo non certo per una necessaria riforma digitale. Ciò che manca alla filiera editoriale non sono i libri ma i lettori. Nel 2019, secondo l’Istat, venivano pubblicati 237 libri ogni giorno e il numero dei lettori rimaneva stabile al 40%. Dato da non confondere con quello dei lettori forti (con almeno dodici libri letti all’anno), che si attesta intorno al 15,6%. È importante sottolineare che – al contrario degli stereotipi della gioventù bruciata – la quota più alta di lettori continua a essere quella dei giovani (in particolar modo il 54,1% nel 2019 tra i 15 e i 17 anni, e 56,6% tra gli 11 e i 14 anni) e di coloro con un’istruzione universitaria (legge libri il 71,9% dei laureati).
Questi dati ci portano a due conclusioni: la prima è che l’istruzione è la chiave di volta per portare all’aumento degli introiti per l’intera filiale culturale, ergo v’è una necessità sostanziale di investire in tal senso; la seconda conclusione è che un Paese con 60 milioni di cittadini non può avere solo 9 milioni (circa) che leggono più di dodici libri all’anno e cercare di porre rimedio investendo sulla digitalizzazione.
Questo non significa che non sia importante investire sul digitale (vista l’arretratezza tecnologica del Paese) ma che questa non sia la priorità. La fine dello scripta manent è ancora lontana, egregio Dott. Moles e l’editoria ha necessità più urgenti di quella di finire nel suo “nuovo mondo”.