Durante il terzo giorno di Più Libri Più liberi, nel pomeriggio, tra gli eventi in programma nella fiera della piccola e media editoria, si è tenuto un incontro con Paolo Di Paolo in dialogo con la casa editrice Aras Edizioni.
Aras ha pubblicato da poco una nuova edizione del libro L’editore ideale di Piero Gobetti, uscito per la prima volta nel 1966, a quarant’anni dalla sua morte, da Vanni Scheiwiller Editore.
La premessa che viene subito fatta all’inizio dell’incontro è che quello di cui si parlerà non è affatto un libro che tratta solo la vita di Gobetti come editore, ma viene definito un tentativo “abortito” di autobiografia.
Per Gobetti, dice Di Paolo, scrivere di sé era un vero e proprio tormento. La sua non era una scrittura che riusciva naturalmente a parlare dell’io ma una prosa da pubblicista, non introspettiva.
Allo stesso tempo, però, tra le righe del libro si può riconoscere un editore quasi inedito per il tipo di intimità che nasconde.
Una delle prime domande fatta a Di Paolo è cosa emerge, a suo avviso, durante la lettura del libro. Lui risponde che all’interno della ristampa avviene una specie di ritorno a Gobetti, tramite il tentativo di mettere insieme tanti piccoli Piero.
In seguito, viene fuori pian piano l’importanza di un Gobetti epistolografo, tramite le lettere scambiatosi con Ada, donna che, insieme a lui, entra in una dimensione che si frappone tra sodalizio emotivo, creativo ed editoriale. In quelle lettere si vedono due ragazzi non solo votati a creare una vita insieme, ma anche e soprattutto un progetto editoriale; un progetto volto all’Eterno metaletterario, se si considera che il Gobetti uomo si spegne all’età di ventiquattro anni e che concentra il suo attivismo intellettuale, politico ed editoriale dalla prima adolescenza sino alla fine dei suoi giorni.
È importante, infatti, soffermarsi su questa parola per capire l’idea di editoria che stava crescendo in lui. Un’idea di editore programmatica e pragmatica allo stesso tempo, che all’epoca cercava di teorizzare un modello che desumesse dal concreto.
Dunque, in quella veloce ma intensissima esperienza, Gobetti riesce a intercettare autori straordinari – non ci si può dimenticare che Ossi di seppia di Montale viene pubblicato per la prima volta proprio da lui – e tenta di costruire una sorta di sistema culturale per cui l’idea di fare editoria in Italia vada di pari passo con capacità pratiche ed effettive.
Gobetti guardava ai libri come oggetti effettivi, fisici. Discutendo di questo, Di Paolo porta avanti un paragone con quella che è l’editoria in Italia oggi. Le case editrici – della piccola e media editoria – effettuano una sequenza di gesti artigianali che portano alla produzione del libro senza quindi appaltare i lavori come avviene con i grandi gruppi editoriali.
Per Gobetti l’editore doveva essere artista e commerciante, capace di crearsi un pubblico e di alimentarne la cerchia.
“Non si può essere spaesati”. Questo il finale di quell’ultima poesia-visione che Gobetti lascia alla sua Torino, ai suoi concittadini che sa se rivedrà. È infatti in queste ultime righe che si compie il suo testamento: il cinismo era solo un’arma di difesa, il suo rigoroso piano di esecuzione non era niente senza il tumulto degli affetti e la radice della sua terra, della sua origine, della sua città non poteva intercambiarsi con una qualsiasi conversazione intellettuale.
A quasi cent’anni dalla morte di Gobetti possiamo rispondere ad uno solo dei suoi assunti: no, alla fine le sue idee non sono morte con lui.
A cura di Clotilde Manno