Adil Belakhdim, 37 anni, rappresentante dei Si Cobas, è morto investito mentre scioperava davanti ai cancelli della Lidl di Biandrate (Novara). Manifestava per l’applicazione del contratto nazionale, quindi per lavorare 8 ore, per avere gli straordinari pagati e uno stipendio più dignitoso. Il minimo indispensabile in un paese civile.
Secondo una prima ricostruzione dei fatti, il conducente del camion avrebbe avuto un diverbio con i lavoratori in sciopero che bloccavano il passaggio. La merce e il profitto legato ad essa, in questa società, non può fermarsi di fronte a niente. Il conducente avrebbe quindi deciso di forzare il blocco, uccidendo Adil Belakhdim.
Oltre all’assurdità di una morte così, da questa vicenda emergono, tra gli altri, due elementi: la mancata applicazione dei contratti nazionali, per cui Adil scioperava, e l’assenza di solidarietà tra lavoratori (se venisse confermata la prima ricostruzione), causata da un clima avvelenato da logiche padronali che gettano discredito su chi lotta per i propri diritti.
Entrambi gli elementi sono legati ad un processo di regressione che dura ormai da almeno 30 anni e che riguarda la qualità del lavoro nel nostro paese.
Un processo, guidato dall’ideologia neoliberista, che non si è limitato ad erodere i diritti dei lavoratori, ma che ha plasmato la coscienza e il senso comune della nostra società, annidandosi anche nelle convinzioni di chi, da questo processo, non ha guadagnato e non guadagnerà nulla.
Nei social, nei luoghi di lavoro ma anche nei bar e nelle piazze, c’è un coro troppo spesso univoco di chi ridimensiona il danno causato dalle politiche di deregolamentazione e liberalizzazione del mercato del lavoro.
Basti pensare che siamo passati dai 400 contratti di dieci anni fa ai 980 pseudo-contratti di oggi. E a questo non è seguito un miglioramento della qualità della vita o un vertiginoso aumento delle possibilità lavorative.
L’opera di erosione dei diritti è stata parallela ad una assidua opera di persuasione (mediatica, politica, culturale) che ha convinto molti che tutto questo è necessario, auspicabile e che anzi, bisogna ringraziare chi ci concede il lusso di lavorare. Come se il lavoro fosse un’opera di beneficenza, misericordia concessa per bontà di qualche pio dal cuore grande.
Una retorica reazionaria, ottocentesca, che coccia con la nostra Costituzione, vituperata senza pietà anche in questo campo. Sindacati e partiti di sinistra non hanno fatto abbastanza per frenare questa retorica. Anzi, in molti casi sono stati i principali attori-esecutori di queste politiche.
Negli ultimi giorni abbiamo assistito ad un penoso piagnisteo da parte di schiere di imprenditori, molti dei quali non rientrano nemmeno nella categoria di self-made man (l’uomo che, almeno, si è fatto da solo), bensì in quella dei figli fortunati, con patrimoni miliardari e colossi aziendali ereditati dai genitori.
Piangono miseria o pontificano sulla poca voglia di lavorare, sull’incapacità di “mettersi in gioco” dei giovani italiani, ma a finire in coma dopo le botte di bande di balordi, ad essere schiacciati da macchinari manomessi per aumentare la produttività o a morire investiti da un camion mentre si sciopera ci sono sempre loro, i lavoratori. Giovani, vecchi, di mezza età, poco importa.
Vogliamo davvero continuare a bollare come choosy, parassita e privilegiato chi preferisce un sussidio rispetto a questa ignobile indecenza?
Perché non proviamo a ribaltare la situazione?
Sei choosy se per massimizzare il profitto scegli di delocalizzare la produzione, se non applichi i contratti di lavoro nazionali, passando sopra i lavoratori e sulle loro famiglie. Sei parassita se metti la produzione (e quindi il profitto) davanti la vita di una lavoratrice. Sei privilegiato se puoi permetterti di “fare esperienza” a poche centinaia di euro al mese perché vieni da una famiglia benestante.
È ora di manomettere il loro paradigma, di capovolgere la loro visione del mondo, di sbugiardare la loro retorica. È ora di uscire dalla trincea dove ci hanno ricacciato e di recuperare qualche metro di dignità. Proprio come stava facendo Adil Belakhdim, ucciso da un sistema economico e di pensiero e non dalla fatalità.