L’attacco di Reading: nella mente del terrorista

Khairi Saadallah, richiedente asilo libico, è stato arrestato ieri a Reading (Inghilterra), accusato di aver accoltellato sei persone in un parco cittadino e di averne uccise tre. Il venticinquenne ha vissuto il carcere per reati minori, mentre ora è indagato per terrorismo (la polizia locale, nello specifico, sostiene la matrice terroristica). Tuttavia, il dato interessante – di certo non nuovo – è la supposizione di una insania mentale da parte di Khairi.

Infatti, spesso si legge di “disturbi psichici” in capo ad attentatori e terroristi, protagonisti di stragi come quella del Pulse di Orlando o dell’Olympia di Monaco. Ciò accade parallelamente all’emersione di una recente (giacché più insolita negli attentati dello scorso decennio) strategia terroristica: l’offensiva di “lupi solitari”. Si tratta di individui dal carattere borderline, instabile, facilmente influenzabile e debole; costoro, molte volte, hanno condotto una vita ai bordi della società, affetti da problemi personali e famigliari. Fu il caso, per esempio, di Anders Breivik, “il mostro di Oslo”, artefice della strage di Utoya in cui morirono 77 persone. Egli aveva sviluppato deliri politico-religiosi che sbocciarono in una patologia psichiatrica, nonché esaltazioni ego-narcisistiche assimilabili alla follia. Una ricerca condotta dall’Europol nel 2016 ha messo in luce che circa il 35% degli autori di attacchi solitari, verificatisi tra il 2000 e il 2015, ha sofferto di qualche disturbo. Negli ultimi anni, anche a causa dell’uso dei social network da parte dei terroristi, i quali si servono di siti web tanto per adescare nuovi operatori quanto per diffondere la loro propaganda, la distinzione tra terrorista “professionista” e psicopatico solitario è divenuta incerta. I mass shooters dimostrano di avere sia malattie mentali sia alcune (seppur incerte) matrici ideologiche; pertanto, è complicato capire le ragioni che hanno spinto un individuo a rubare un camion e a gettarsi su una folla civile. A primo impatto, si potrebbe definire “pazzo”, eppure talvolta c’è anche una componente dottrinaria – soprattutto nel terrorismo islamico estremista.

L’americano Adam Gadhan, propagandista qaedista, consigliava ai “lupi solitari” la teoria delle tre punte: scegliere un obiettivo che conoscono bene, facile da colpire e con il massimo impatto (Guido Olimpio, Terrorismi, La Nave di Teseo, 2018). In altre parole, si deve attaccare un luogo frequentato e vicino alla coscienza della collettività che s’intende aggredire; un luogo piuttosto indifeso e agevole da cogliere di sorpresa; un luogo che abbia una risonanza mediatica forte (un museo, una chiesa, un’istituzione, una scuola). Ciò serve a capire che i cosiddetti lupi possono presentare sì insanie mentali, ma sono comunque soggetti a indottrinamento (sia religioso sia concretamente operativo-strategico). Nel 2017, la newsletter del Califfato pubblicò un manuale per gli operatori che vivevano fuori dal Medio Oriente, con delle indicazioni specifiche. Si leggeva così: “Consiglio al mujaheddin nella casa del nemico. Prima di preparare un atto di fedeltà: […] continua a uccidere finché tu stesso non sarai ucciso”. Si comprende, allora, l’elemento ideologico forzato, inculcato nella testa del terrorista isolato. E il dubbio circa il confine tra pazzia e dottrina si fa ancora più stretto, perché emerge la volontà d’azione più da parte della “guida” che dell’agente, il quale alcune volte subisce, accetta passivamente.

Dunque, al netto di pareri discordanti di analisti e studiosi, la patologia nel compimento dell’atto terroristico può esistere e influenzarne lo sviluppo. Questo non giustifica l’agire del terrorista, piuttosto pone ulteriori interrogativi, sul piano della prevenzione e su quello della repressione. Per combattere le forme di terrorismo isolato è fondamentale considerare le criticità mentali, oltreché l’indottrinamento puro, ed entrare nella mente del terrorista.

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