La prosecuzione a oltranza della guerra in Ucraina è un problema per Xi Jinping. Una vittoria mutilata è inaccettabile per Vladimir Putin. Turchia e Stati Uniti osservano a distanza, cercando talloni d’Achille dell’amicizia senza limiti. L’aiuto potrebbe provenire da Turan
Nel vicino eppure lontano 1991, guardando in diretta la disgregazione dell’Impero più vasto del mondo – l’Unione Sovietica –, uno dei più brillanti strateghi dell’epoca – e del Novecento – ebbe un’intuizione, un lampo di genio. Era solo una vaga idea, la sua, ma sentì di doverne parlare assolutamente, il prima possibile, con un capo di stato: l’allora presidente turco Turgut Özal.
Quello stratega si chiamava Henry Kissinger, l’autore di quella celebre “diplomazia triangolare” alla base della rottura sino-sovietica, e la sua idea, non ci è dato sapere se allora ne fosse cosciente oppure no, avrebbe cambiato la traiettoria della storia del Duemila.
“Vedo un mondo turcico estendersi dall’Adriatico alla Grande muraglia cinese”, disse con tono deciso Kissinger ad un incredulo Özal. Alla Turchia, uscita dalla Guerra fredda in qualità di vincitrice – perché tra gli alleati del Mondo libero –, l’onere-onore di trasporre quell’onirica visione in realtà.
Recep Tayyip Erdoğan, guidato dall’obiettivo di restituire la Turchia al consesso delle grandi potenze, ha fatto della suggestione di Kissinger il leitmotiv della propria esistenza politica. Giacché nessuno più di lui ha fatto per l’internazionalizzazione del panturchismo e del turanismo, nonché del neo-ottomanesimo, esportati dall’Europa all’Estremo Oriente a suon di lire grazie al Direttorato degli affari religiosi (Diyanet) e all’Agenzia di cooperazione e coordinamento turca (TİKA). Magniloquenti i risultati ottenuti in vent’anni di erdoganismo: più di cento moschee costruite all’estero, oltre trentamila progetti culturali e di cooperazione allo sviluppo esperiti dalla TİKA, la creazione di una rete internazionale per la propagazione del panturchismo basata su una serie di organizzazioni intergovernative, nongovernative e regionali, l’incredibile e tangibile ritorno economico degli investimenti appena citati.
A Kissinger va riconosciuto il merito di aver avuto l’intuizione sul risveglio dei popoli turchici, equivalente contemporaneo della novecentesca sollevazione dei popoli arabi, poi sistematizzata in una teoria predittiva da Samuel Huntington – il celebre e spesso incompreso Scontro di civiltà. A Erdoğan va dato atto di aver fatto propria la visione di Kissinger, del quale un altro grande geopolitico – Zbigniew Brzezinski – aveva spiegato ne La grande scacchiera le effettive potenzialità nel contesto del risorgente Torneo delle ombre, e di aver reso il panturchismo una delle forze trainanti della ridistribuzione del potere nell’età post-bipolare. Che, invero, non sono state né la Russia né la Repubblica Popolare Cinese, ma la Turchia, ad avviare i processi di integrazione nell’Eurasia profonda.
L’Unione Economica Eurasiatica pensata dal Cremlino per frenare l’avanzata occidentale (e non solo) nello spazio postsovietico nasce nel 2014, diventando effettiva nel 2015. La Belt and Road Initiative immaginata dallo Zhongnanhai per resuscitare le antiche Vie della seta, così da riconvertire la Cina nella Terra di mezzo, viene annunciata nel 2013. Ma l’Organizzazione degli Stati Turchici, altresì nota come Consiglio Turco, risale al 2009. L’Assemblea parlamentare degli Stati Turchici viene fondata nel 2008. E l’Organizzazione internazionale per la cultura turca, potentissimo strumento di proiezione di potere morbido nelle mani di Ankara, addirittura nel 1993.
Vero è che Ankara, rispetto a Pechino e Mosca, soffre di un forte svantaggio in termini di capitale disponibile, ma altrettanto lo è che né cinesi né russi hanno quel potere magnetico, di origini naturali, che permette all’agenda identitaria dei turchi di attecchire più facilmente e velocemente nello spazio turcofono. Spiegato altrimenti: la Turchia riesce ad ottenere più di Russia e Cina nell’area turcica, in proporzione al capitale investito, perché ivi vista più simpateticamente dai governanti e dai popoli. Il richiamo di Turan vale più di una montagna di rubli, o di renminbi.
Scripta manent. La Turchia è riuscita a dar vita ad un’alleanza intergovernativa paramilitare – la TAKM, costituita nel 2013 –, al cui interno si trovano Azerbaigian e Kirghizistan. La Turchia ha sottratto l’Azerbaigian alla Russia e ha legato dei partenariati strategici con Kazakistan e Uzbekistan, apripista di collaborazioni più strette e crescentemente multisettoriali – inclusi affari militari e difesa. La Turchia è riuscita ad entrare all’interno della stessa Federazione attraverso entità dagli scopi dubbi come l’Assemblea mondiale dei turchi (World Turks Qurultai), che si vocifera legata all’agenzia di intelligence nazionale – il MIT –, e dalla Federazione è stata messa nel mirino per via delle presunte attività di sovversione e radicalizzazione esperite, in Tatarstan e dintorni, attraverso organismi come Türksoy, organizzazioni terroristiche come Hizb al-Tahrir – peraltro presente in Crimea – e diffondendo il pensiero di intellettuali controversi come Said Nursi. Sempre la Turchia, infine, dalla Repubblica Popolare Cinese è guardata con sospetto per via del ruolo storicamente giocato a supporto dell’indipendenza dello Xinjiang. Senza dimenticare, se il tema è Turchia e separatismo, la longa manus dei servizi segreti turchi dietro la stagione di terrorismo etno-religioso che insanguinò il Caucaso settentrionale tra gli anni Novanta e il primo Duemila – ancora oggi l’Anatolia è la casa della più folta diaspora cecena del mondo, composta in larga parte da oppositori antikadyroviani ex combattenti delle due guerre e loro familiari.
La Turchia ha dimostrato in passato di essere volente e capace di accendere e/o alimentare focolai insurrezionali nello spazio turco-turanico, Cecenia docet, e ciò la rende un rivale temibile agli occhi di Russia e Repubblica Popolare Cinese, due potenze imperiali ossessionate dall’atavica fobia dell’implosione su spinta della convivenza impossibile tra le etnie che le popolano. Per lo stesso motivo, la Turchia è stata vista nelle stanze dei bottoni degli Stati Uniti come il cavallo di Troia ideale al quale delegare il sabotaggio dei sogni multipolari dell’Orso e del Dragone.
La vera domanda, premesso il ruolo in potenza determinante che la Turchia può ricoprire in Asia centrale e all’interno dei ventri molli di Russia e Cina, è la seguente: cosa vorrà fare? Perché non è detto che doppiogiochismi e triplogiochismi saranno possibili in eterno alla Sublime Porta. L’aggravamento della competizione tra grandi potenze complicherà, in maniera crescente, la posizione di stati indecisi, cerchiobottisti e non-allineati. E per il Lupo grigio, un giorno, potrebbe arrivare il momento della scelta della vita: con Turan per spartirsi l’Asia di comune accordo con l’Orso e il Dragone o con Turan per riscrivere il volto del continente secondo i desiderata dell’Aquila?