Lo scorso 14 maggio, uno dei più grandi produttori al mondo di microchip, Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (T.S.M.C.), ha annunciato la costruzione di un impianto in Arizona, scelta definita dal segretario di Stato americano Mike Pompeo un “punto di svolta”. Il giorno seguente, il Dipartimento del Commercio statunitense, con un nuovo provvedimento, ha di fatto vietato a Huawei di fare affari con i produttori di semiconduttori che usano componenti made in USA. Le due notizie si inseriscono nella geopolitica dei chip, parte della più ampia tech war tra Cina e Stati Uniti per la primazia globale.
Occorre innanzitutto chiarire l’importanza dell’oggetto: senza i semiconduttori non ci sarebbe il mondo in cui viviamo. Computer, smartphone, fotocamere digitali, ma anche luci a led, frigoriferi, automobili e macchine per il caffè, hanno tutti nei semiconduttori una componente principale e imprescindibile. La stessa Silicon Valley, heartland dell’alta tecnologia, deve il suo nome al silicio (“Silicon”), semiconduttore alla base dei circuiti presenti nei dispositivi elettronici e digitali. Inoltre, i microchip svolgono un ruolo determinante nel garantire il funzionamento delle reti 5G, dei sistemi di machine learning e di intelligenza artificiale, in aggiunta a numerose applicazioni militari, dai satelliti ai droni. In cifre, il mercato dei semiconduttori avrà un valore di oltre 740 miliardi di euro entro il 2024, secondo il portale tedesco Statista[1].
Avendo ora chiara la strategicità del tema, torniamo allo scontro tra Pechino e Washington. La Cina è il più grande mercato mondiale per i semiconduttori: ne consuma più del 50% del totale, sia per uso interno che per export. Oggi però solamente il 30% circa dei semiconduttori usati in Cina è prodotto nell’Impero del Centro: vulnerabilità geopolitica potenzialmente fatale in tempi di decoupling delle supply chain. Nel 2025 tale valore dovrà salire al 70%, secondo i piani del Partito, mentre entro il 2030 Pechino punta a diventare leader dell’industria dei microchip, come dichiarato dal Consiglio di Stato cinese nel ‘2014 “National Integrated Circuit Industry Development Guidelines” [2]. Per raggiungere tale ambizioso obiettivo, oltre a incentivi fiscali e iniezioni di liquidità, la Cina ha creato un fondo statale di 29 miliardi di dollari, interamente destinato all’industria locale dei semiconduttori e finalizzato a ridurre la dipendenza tecnologica dagli Stati Uniti [3].
Rileva altresì ricordare che il rapporto fra microchip e geopolitica non è nato oggi in relazione allo scontro tra Cina e USA. Già nel 1986, infatti, alla giapponese Fujitsu fu impedito di acquistare l’americana Fairchild Semiconductor, per impedire una temuta espansione nipponica nel mercato dei semiconduttori e dell’informatica. «Se una delle nostre aziende di semiconduttori giunge nelle mani dei giapponesi, potremmo finire per non avere più una industria di semiconduttori. Potremmo perdere di default la corsa tecnologica», disse l’allora vicesegretario alla Difesa per la sicurezza del commercio Stephen Bryen [4]. La vicenda Fujitsu portò all’approvazione dell’emendamento Exon-Florio al Defence Production Act, introducendo il potere presidenziale si sospendere o proibire fusioni o acquisizioni straniere che pregiudichino la sicurezza nazionale. I poteri del Presidente degli Stati Uniti sono stati dunque modificati a causa di piccoli, ma potentissimi, microchip.
La disposizione restrittiva nei confronti di Huawei menzionata nell’introduzione entrerà in vigore a settembre, concedendo quindi al colosso cinese 120 giorni di “tolleranza”. L’azienda di Shenzen non ha esitato a rispondere per le rime, definendo la decisione statunitense “arbitraria e dannosa”, tale da causare un “impatto per centinaia di miliardi di dollari sullo sviluppo, la manutenzione e le continue attività di rete che abbiamo implementato in oltre 170 paesi”. La Casa Bianca è stata accusata di sfruttare “i propri punti di forza tecnologici per distruggere le aziende al di fuori dei propri confini”. Ma a destare maggior scalpore sono state le parole di Guo Ping, Presidente di turno di Huawei: “Ora lavoreremo sodo per capire come sopravvivere. Sì, sopravvivere è la parola chiave per noi ora”.
In breve, la sopravvivenza di un gigante da più di 100 miliardi di fatturato è in mano al Dipartimento al Commercio a stelle e strisce. Ma la società fondata da Ren Zhengfei non starà a guardare: sono già stati avviati colloqui con MediaTek e UNISOC, rispettivamente il secondo produttore di microchip mondiale ed il secondo sviluppatore di semiconduttori per dispositivi mobili presente in Cina, per accelerare la de-americanizzazione della catena di approvvigionamento dell’azienda [5].
In conclusione, i semiconduttori sono
sia un driver di crescita economica che cruciali per la sicurezza nazionale.
Ergo: i microchip hanno una profonda rilevanza geopolitica. Washington è divisa
tra l’esigenza di difendere le quote di mercato e influenza delle aziende
americane, permettendo quindi l’export verso la Cina, e la volontà di dare una
spallata a Pechino, bloccando le esportazioni di semiconduttori americani e
sperando che l’Impero del centro rallenti la sua corsa verso l’autosufficienza.
Ad oggi il secondo approccio, ovvero quello dell’embargo tecnologico, sta
prevalendo. Giusto o sbagliato che sia, un elemento è certo: la guerra dei chip
è appena iniziata.
[1] https://www.statista.com/statistics/809662/global-semiconductor-market-revenue-forecast/
[2] https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2744974
[3] https://daxueconsulting.com/chinas-semiconductor-industry/
[4] B. Lojek, History of Semiconductor Engineering, Berlino-Heidelberg 2007, Springer, p. 173.
[5] https://asia.nikkei.com/Spotlight/Huawei-crackdown/Huawei-turns-to-mobile-chip-rivals-to-beat-US-pressure