L’epidemia in corso non stravolgerà gli equilibri mondiali. Non altererà in modo rilevante i rapporti di forza fra grandi potenze. Non sconvolgerà il ritmo lento della geopolitica. Quest’ultima infatti fonda le sue analisi su elementi strutturali e non contingenti; ragiona in termini di continuità e diffida da chi vede “tornanti della storia” dietro ogni angolo; è pura osservazione dall’alto e rifugge il presentismo, ovvero l’appiattimento sulla cronaca del giorno. Il coronavirus non sarà quindi un’ora zero, bensì metterà il turbo ad un motore globale già in fase di accelerazione.
Come l’influenza spagnola, nonostante le decine di milioni di morti, non fu in grado di modificare lo scacchiere prodotto dalla Prima guerra mondiale, così il coronavirus non intaccherà le fondamenta della fase storica in cui viviamo. Con il termine “fondamenta”, in geopolitica si intendono tutti quegli elementi essenziali che determinano lo status di una potenza: la demografia, la potenza militare, la posizione geografica, la cultura strategica, le capacità civili ed economiche di un popolo, le attitudini di una collettività. Il differenziale tra Stati Uniti e Cina in termini di hard power rimane inscalfito dal virus, con Pechino ancora molto distante da Washington sotto molteplici punti di vista: un’età media in preoccupante aumento; una spesa militare che rimane circa 1/3 di quella statunitense; una posizione geografica che impone maggiori preoccupazioni; una ancora eccessiva dipendenza da esportazioni che viaggiano sui mari controllati dallo Zio Sam; una bolla immobiliare e un debito che potrebbero esplodere; ma soprattutto linee di faglia interne al Paese (Taiwan, Hong Kong, lo Xinjiang e il divario costa-entroterra su tutte) che le impediscono di puntare al primato globale senza guardarsi le spalle. Tuttavia, è un fatto che gli Stati Uniti stiano perdendo quella forza ideale (soft power) che avevano un tempo, a favore di una Cina percepita sempre più come un Paese amico (trend certificato da un sondaggio SWG sulla popolazione italiana), prodigo di aiuti e finanziamenti verso i Paesi in difficoltà. Su Foreign Affairs si è addirittura parlato di “Suez moment” degli Stati Uniti, come se il coronavirus segnasse la fine dell’impero a stelle e strisce nella misura in cui la crisi del 1956 rappresentò il crepuscolo di quello britannico. Ignorando che un Impero non va in pensione dalla sera alla mattina, e Washington non ha avuto la Seconda guerra mondiale britannica a declassarne lo status. Mentre il soft power senza l’hard power è come un fucile senza proiettili.
Il virus mette a nudo le potenze, ne evidenza le caratteristiche fondamentali, accelera trend preesistenti, illumina tendenze, ma non stravolge ciò che stravolto in pochi mesi non può essere.
Di una cosa possiamo stare certi: la competizione strategica fra Cina e Stati Uniti non è destinata a terminare, tutt’altro. Si inasprirà nei prossimi mesi o anni, a prescindere da chi sarà il prossimo inquilino alla Casa Bianca. Il decoupling (disaccoppiamento) delle catene del valore proseguirà, con un caveat fondamentale: è possibile ridurre la dipendenza dalla Cina, ma non farne completamente a meno. Nessun paese del sud-est asiatico può infatti pienamente sostituire la Cina in termini di forza lavoro e qualità delle infrastrutture.
Nei prossimi mesi e anni la recessione che colpirà gli Stati Uniti genererà malessere nella superpotenza. Questa frustrazione potrebbe essere scaricata sui satelliti (= paesi europei e alleati), ai quali sarà richiesto di sostenerne la ripresa economica, ed eventualmente anche sui nemici dichiarati, Cina e Iran in testa. Come sottolineato da Dario Fabbri: “il futuro dipenderà dalla sofferenza percepita dalla nazione profonda, da quanto bisogno avranno gli americani di dimostrare la propria superiorità”. I tempi del fantomatico G-2 tra Cina e Stati Uniti, della co-gestione del mondo, della cooperazione pacifica per ripristinare la stabilità del sistema finanziario a seguito della crisi del 2008, sono terminati. Ma non per colpa del coronavirus, il quale ha avuto invece il solo merito di aprire gli occhi a coloro che ancora si rifiutavano di farlo.
Come scrisse Tucidide: “la peste non cambia la natura umana, la amplifica”.