L’amore rende liberi: la storia di Lucy Salani

C’è un soffio di vita soltanto” è un documentario diretto da Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, che ripercorre la vita della transessuale e sopravvissuta al campo di concentramento diDachau, Lucy Salani.

In questi giorni, la donna è impegnata nella promozione presso le sale italiane dell’opera, distribuita a partire dal 10 gennaio.

Nata Luciano nel 1924, in provincia di Cuneo, oggi vive a Bologna in una casa popolare. Ed è lì che i due registi sono andati per convincerla a raccontarsi, dopo aver visto una sua breve intervista ed essere rimasti sorpresi da questa incredibile vita.

Lucy racconta, durante la trasmissione di Rai 3 “Oggi è un altro giorno”, dove è stata ospite il 7 gennaio, di essersi sempre sentita una donna fin da bambina:“preferivo giocare con le bambine perché i maschietti mi davano fastidio”.

Il sentirsi diversa la fa scontrare con la famiglia, i fratelli non sopportano la sua presenza e la madre la accusa di essere una vergogna per il mondo quando lei la interroga provocatoria: “Cosa stavi pensando quando mi hai fatto a una femmina o a un maschietto?”.

Da giovane omosessuale degli anni ’30, subisce prevaricazioni e percosse ma nulla a confronto di quello che accade ad alcuni suoi amici, rasati e cosparsi di catrame bollente.

Durante le visite mediche per l’arruolamento nell’esercito tedesco, nel ’43 dichiara la sua omosessualità ma, pensando ad un pretesto, non le credono. Allora, Lucy fugge e diviene una disertrice.

Catturata, viene inviata in un campo di lavoro  ma le durissime condizioni la spingono ad una nuova fuga; questa volta viene spedita direttamente a Dachau.

Appena arrivata al campo di concentramento, vede un uomo su uno sgabello col cappio al collo, lasciato lì a resistere fino al mattino, mentre un altro viene accoltellato sotto i suoi occhi.

Qui, dal novembre del ’44 al marzo del ’45, vive  lInferno: si occuperà di assegnare ai cadaveri delle targhette e trasportali presso i forni crematori: “ho conosciuto la disperazione, la fame, il disprezzo…al limite…”.

“Volevamo morire tutti, ma eravamo troppo vili per farlo, ci fermava la paura del dolore, la speranza di essere liberati”.

Lucy, però, riesce a salvarsi con l’arrivo degli americani e la liberazione del campo, nonostante sia ferita da un proiettile tedesco.

Tornata libera, si emancipa dalla famiglia e va a vivere a Torino, lavorando come tappezziera.

Inizia per lei una vita d’amore, che la porterà a viaggiare in macchina fino a 90 anni ma anche ad adottare una ragazza, Patrizia, morta prematuramente nel 2014.

È solo agli inizi degli anni ‘80, quando ha ormai compiuti 60 anni, che decide di sottoporsi all’intervento di riattribuzione chirurgica di sesso.

Tuttavia, nonostante fosse la realizzazione di ciò che aveva sempre voluto, «il periodo post-operazione», racconta ai microfoni di Open, «fu molto doloroso. Erano altri tempi e, purtroppo, non veniva data molta attenzione alla ricostruzione della sensibilità dei genitali. Ho dovuto rinunciare alla perdita di piacere ed è stata una grande sofferenza».

“Il mio nome me lo hanno dato i miei genitori, è sacro, perché una donna non si può chiamare Luciano?”, dice, inoltre, in un estratto del trailer tratto dal documentario che la vede protagonista.

Luciano non vorrà mai cambiare nome, perché sacro e insostituibile come quei genitori che non l’hanno mai accettata.

“Non siamo artefìci ma essere umani, essere diversi non è una colpa ma un pregio”.

Lucy è stata anche una giovane poetessa e il titolo del documentario riprende proprio una sua poesia: “[…] su un mondo di cose appassite c’è un soffio di vita soltanto”.

Il dolore nel rivivere la sua storia non l’ha fermata dal lasciarci una preziosa testimonianza, perché: “la cattiveria è infettiva come il virus”, e per questo va conosciuta.

1 commento

  1. L’articolo ha una capacità descrittiva cosi vivida che da, non solo la spinta a leggete il libro, ma la sensazione di essere compenetrati nella storia

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