La vendetta dei Talebani: tutti quelli che rischiano

Il racconto sulla moderazione dei Talebani, che hanno divulgato in molti, tra giornali e vertici nazionali, si sta dimostrando errato. Chi è rimasto a Kabul vive un inferno. Non solo coloro che non hanno diritto a espatriare, i quali devono arrendersi a vivere sotto la dittatura talebana, ma anche quelli che sono in lista per partire; tutti, in qualche modo, pagano un pegno alle milizie taleb, che, ormai, controllano le principali strade e l’ingresso all’aeroporto di Kabul. Perciò, se all’inizio della presa della capitale i giornali narravano il pericolo soprattutto per le donne, ora le liste di proscrizione si sono allungate: omosessuali, giornalisti, collaboratori, capi dell’esercito afgano, musicisti, artisti e hazara. 

Già da alcuni giorni sono iniziate le perquisizioni casa per casa alla ricerca dei collaboratori: traduttori, cooperatori con la coalizione internazionale, interpreti. Chiunque abbia aiutato i Paesi in missione, contro i Talebani, e non sia ancora stato espatriato, rischia grosso. Alcune fonti locali riferiscono che i Talebani agiscono a tutte le ore, sanno dove cercare e sono aiutati dal Pakistan. Bene che vada, chi viene sorpreso in casa a nascondersi, e sia un presunto collaboratore, viene percosso e arrestato. Poi, non si sa più niente. 

All’aeroporto i Talebani hanno istallato dei checkpoint che consentono l’accesso allo scalo, anche per chi sia già stato messo in lista di partenza dal proprio Stato, soltanto tramite il pagamento di 1500/2000 dollari a persona. Mentre chi prova a fuggire, o scaraventa i propri figli dall’altra parte del filo spinato, con la speranza che i soldati li portino via, viene respinto con la forza dai soldati taleb posti a controllo dell’aeroporto. Nella folla, già dai primi giorni subito dopo la presa di Kabul, c’è chi muore soffocato dalla calca di persone in cerca di speranza. 

I giornalisti, al netto delle parole “confortanti” dichiarate alla stampa dai Portavoce dei Talebani, sono costretti a obbedire alle regole comportamentali decise dal regime. Clarissa Ward, nota e coraggiosa giornalista Cnn, è stata minacciata e la sua troupe è stata aggredita da alcuni talebani. “È molto pericoloso, è un miracolo che più persone non siano state ferite”, commenta mentre viene respinta con brutalità dai combattenti, intenta a riprendere alcuni fatti per le vie di Kabul. La Ward è poi partita, perché è ormai molto difficile svolgere la professione in tali condizioni. L’associazione internazionale “Giornalisti senza Frontiere” racconta dello sterminio della famiglia di un reporter locale che lavorava per Deutsche Welle; quando lui non fu trovato, la violenza omicida si è consumata sui parenti. Per di più, la stampa è presente quasi esclusivamente a Kabul, giacché capitale e centro nevralgico degli avvenimenti afgani, tuttavia nelle province la situazione è ancor più critica, poiché nessuno la documenta.

Gli stessi Talebani, invece, registrano immagini e video che diffondono sui social o sui propri canali. È il caso dell’esecuzione del generale Haji Mullah Achakzai, capo della polizia nel governatorato del Baghdis, che è stato bendato e poi ucciso con raffiche di proiettili. Un caso, questo, che probabilmente si è ripetuto e si ripete ogni giorno nel territorio dell’Afghanistan. Qualcuno teme addirittura che i Talebani possano “congelare” la rete così da poter svolgere un lavoro più semplice, senza che le barbarie commesse possano finire nelle mani degli accusatori occidentali. Allora sorge un interrogativo: i vertici militari non avevano garantito che il “perdono” avrebbe sostituito la “vendetta”? 

Quanto promesso viene disatteso anche nei confronti della popolazione hazara (sciiti odiati dai pashtun sunniti, N.d.A.). Infatti, un rapporto diffuso da Amnesty International descrive l’esecuzione di 9 uomini hazara, avvenuta nel villaggio di Mundarakht tra il 4 e il 6 luglio. Non occorre dimenticare, inoltre, la comunità Lgbt a Kabul, i cui membri corrono un serio pericolo di vita. Per essere chiari: prima della presa dei Talebani, gli omosessuali non erano comunque visti di buon occhio dall’ex governo, tuttavia non rischiavano di essere uccisi come, invece, accade oggi. Ieri Simone Alliva, sulla Stampa, raccontava il caso di Basir, che da giorni vive nascosto in un luogo “sicuro” a Kabul. “Siamo cadaveri che si nascondono”, afferma il 23enne, gay, che i Talebani stanno cercando. Un suo amico, Alawi, è stato “picchiato senza pietà, colpito sui reni, alla testa, ai polpacci, con il calcio del fucile e i bastoni. Poi è stato stuprato” [La Stampa, 21 agosto, pag. 10]. Agli omosessuali accade questo: due punizioni, o la lapidazione o schiacciati sotto il crollo di un muro la cui parete deve essere alta da due a tre metri. 

Anche per gli artisti la sorte non è dissimile: ovunque vadano, i Talebani distruggono gli strumenti musicali e intimidiscono i musicisti. Ogni forma d’arte è bandita: la cultura non appartiene al regime. Già nel 2001 provarono a distruggere i reperti del museo di Kabul; oggi la storia potrebbe essere la stessa. 

Quanto scritto accade quotidianamente, in Afghanistan, nel clamore del mondo che non può fare altro che portare via il maggior numero di cittadini possibile. I Talebani hanno rubato agli USA l’utilizzo della biometrica, che permette di risalire alle identità delle persone tramite tecnologia. Così essi vanno a caccia di oppositori, senza sosta, notte e giorno. Contro quei Paesi occidentali che si scaricano il barile della colpa a vicenda e contro quell’informazione che, incredibilmente, crede al cambiamento dei Talebani. 

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