La Memory St. Francis of Assisi Monument di YanFei Tong

Se la memoria a volte si stanca di raccontare, forse allora subentra in aiuto la pittura. Entrambe, sia la pittura che la memoria depongono l’immagine, l’una in maniera più significativa l’altra in maniera più comunicativa. Entrambe anche però la filtrano da un unico imbuto della coscienza, depurandola di ogni scoria del reale. 

Quando invece la pittura vuole farsi essa stessa memoria, arreca un processo di de-significazione della comunicazione, nel quale prende luogo la metamorfosi del segno in sogno.

È l’occasione di ciò a cui noi assistiamo con la Memory St. Francis of Assisi Monument del giovane pittore cinese YanFei Tong.

Un olio su tela di soli 50×70 cm, di soggetto figurativo, realizzato nel 2024.

Un quadretto si direbbe, eidyllion, dal contenuto più grande delle sue dimensioni fisiche. 

È rappresentato il soggetto monumentale di vocazione religiosa dedicato alla vicenda francesca na assisiate e realizzato a Roma dall’artista Giuseppe Tonnini. Un’opera del primo Novecento che rivive in un’altra a distanza di cento anni, recuperando la stessa legge di emulazione che interagiva nel sistema dell’arte antica. L’autore Tonnini viene qui non solo a costituire una pubblica menzione per la sua opera, ma viene a farsi anche competitore storico in quanto iniziatore di una tradizione che ha riconosciuto proprio YanFei Tong con la presente opera.

Sussiste alla composizione un praetextum auctoritatis, ovvero di “autorizzazione” del modello. 

Non è l’unico però il modello romano che ha funto da puntello del dipinto, se accorrono alla sua resa iconografica numerose influenze futuriste e formaliste che conferiscono alla patina pittorica una gravità grammaticale.

La statua del santo di Assisi che primeggia di spalle su un podio piramidale in mattoncini di argilla cruda, è annunciata dalla retroguardia di altri tre frati noti alla leggenda di Bonaventura, scalzi e chi inginocchiato sui gradini chi solerte ad ammirare l’umiltà allocutoria di Francesco, commuovono nell’efficace fuoco prospettico retroscenico lo spettatore verso l’unità della scena che sembra pietrificarsi al momento stesso in cui l’occhio allarga la pupilla per il molteplice.

C’è un gioco sotteso alla tecnica dell’artista, che rimette in flusso narrativo la staticità monolitica della composizione in bronzo meritoria di aver solennizzato la figura ieratica, ma non di averla interpretata nella sua santità. Il gruppo statuario è non è conservato nella sua matericità rigida ma anzi prende respiro vitale come di una normalissima scena quotidiana in un quartiere romano vista da una finestra che però non si affaccia dall’alto sulla piazza, ma guarda sullo stesso piano del passante che ammira le statue stagliarsi sull’ombra della Basilica Lateranense.

Una veduta parallela quindi, intra rem, o intra scenam, che non presuppone nessuna distanza artefatta tra il monumento e la vita, ma al contrario, abbrevia il tempo di ammirazione per allungare quello di memorizzazione e compassione. La consunzione che il colore celestino, di cui è macchiato lo specchio ai bordi dei sei riquadri equilateri del grande finestrone, mostra durante tutta la narrazione iconografica, che termina in un senso quasi orario con l’ultimo riquadro lasciato semiaperto, non chiuso, per il postero che giungerà alla memoria, per ora a lui oscura e sospesa, trasporta l’opera a un precetto universale di fugacità dell’umanità. Fugacità perfettamente espressa dalla pennellata secca che accentua il tratto filamentoso del colore, dal tono tiepido e spento, piuttosto cupo. Ogni riquadro inoltre è racchiuso da una sottile cornice di colore brunastro che unendosi alle altre struttura lo scheletro della grande finestra. La godibilità dell’intera raffigurazione  è continuamente interrotta, ostacolata proprio dalle lacune apparentemente incidentali, quasi che l’oggetto fosse stato lasciato lì da anni alle intemperie del tempo, riproponendosi come un dejavù della memoria.

Il vero liquido corrosivo che rode la superficie di questa “scena fenestrata”, ambiguo specchio del volto di chi guarda ma che ne riflette il nulla grigiastro, non è tuttavia il tempo, ma il sogno in cui è trasformato lo stesso monumento di santità che il mondo ha dimenticato come suo antico modello.

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Mauro Di Ruvo
2000, Bari, Critico d’arte, classicista e medievista. Redattore di Politica interna. Attualmente si occupa di Etruscologia e Diritto Romano a Perugia, dove conduce indagini sperimentali in Archeologia Classica. Si è occupato di Estetica cinematografica e filosofia del linguaggio audiovisivo a Firenze presso la storica rivista “Nuova Antologia” e collabora con la Fondazione Spadolini. È autore del romanzo Pasqualino Apparatagliole (2023, Delta Tre Edizioni), e curatore della recensione al libro Oltre il Neorealismo. Arte e vita di Roberto Rossellini in un dialogo con il figlio Renzo di Gabriella Izzi Benedetti, già presidente del Comitato per l’Unesco, per la collana fiorentina “Libro Verità”. Ha già curato per la “Delta Tre Edizioni” le prefazioni alla silloge Lo Zefiro dell’anima (2019) di Pasquale Tornatore e al romanzo Le memorie del dio azteco (2021) dello storico Saverio Caprioli. A novembre 2023, ha curato il Convegno “L’ombra del doppio: la dicotomia nella poiesis” nella città di Lavello.

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