Mentre Kiev «si prepara a resistere» e il Presidente Zelensky come un moderno Capitano Edward John Smith afferma che, nell’indifferenza degli alleati, nonostante lui si riconosca come bersaglio degli attacchi nemici non andrà via.
Diversi media riportano come dato più recente degli attacchi del primo giorno di combattimento almeno 137 morti e oltre 300 feriti. I civili ucraini vengono forniti di armi da parte del governo per contrastare in qualche modo quel loro nemico del loro «stesso identico umore ma la divisa di un altro colore».
Mentre nei giorni scorsi Biden continuava a parlare di sanzioni economiche ora mobilita anche le truppe in vista di quello che nessuno ha più paura di dire. Se la Guerra Fredda fu principalmente una strategia di tensione che non portò mai veramente ad un conflitto, i leader del presente sembrano essere affamati di questa “necessaria violenza”.
Necessaria perché come sosteneva Quasimodo l’uomo del suo (e del nostro) tempo vive ancora secondo «la pietra e la fionda» dimenticatosi ormai degli insegnamenti della storia, utili solo a fini scolastici ma nella vita reale questo usurpa, questo sfrutta, questo stupra e questo violenta con violenza tutto ciò che incontra.
«A dark day for Europe». Titola così il Times allegando le foto scattate dalle mani ferme (seppur tremanti) dei coraggiosi fotografi sparsi nei luoghi ancora sanguinanti di missili e grida. Un giornalista, Daniel Leal, scatta una fotografia alla stazione di Kiev ad una coppia, talmente uniti che lasciarsi anche solo le dita sarebbe come essere tramortiti da quello che sta succedendo fuori dalla stazione. Le mascherine gli coprono la bocca ma non servono baci per lo scatto dell’anno, c’è uno sguardo dei “non detto”, dei “ce la faremo”, dei “andrà tutto bene”. C’è uno sguardo che non viene distolto neanche dal rumore dei missili perché «i ragazzi che si amano si baciano in piedi contro le porte della notte» ma chi deve fuggire non ha tempo di aspettare la notte, perché potrebbe essere già tardi.
C’è una guerra che non è nei media, una guerra degli invisibili. Una che non è fatta di freddi numeri o di storia politica riesumata dopo mezzo secolo. Una che è fatta di papà che vestono le figlie pronte a partire verso chissà dove perché la loro casa non è più sicura e «dovete andare dai nonni perché gli mancate tanto ma tranquille che poi vi raggiungo». C’è una guerra delle fila di macchine, come a Kabul. C’è una guerra di chi è malato, di chi è in carcere, di chi non vuole lasciare la casa che ha costruito con tutti i risparmi di una vita. C’è la guerra dei senzatetto, degli stagisti e di chi non può più consegnare pizze perché il quartiere è saltato in aria. Ci sono gli studenti ma anche gli autisti. Ci sono talmente tanti invisibili che a vederli tutti assieme dovrebbero rappresentare la maggioranza ma contano meno di tre o quattro persone che in un consiglio scelgono della vita di miliardi di persone.
Che poi alla fine, cosa gli può importare: invisibili erano, invisibili sono e invisibili saranno. Tranne quando un missile li seppellirà. Li saranno numeri.