Per chi suona la campana? Senza scomodare Hemingway né intricate vicende
storiche, è possibile rintracciare la risposta attraverso gli esiti elettorali
che furono e che saranno: a 11 anni
dalla sua nascita il Movimento 5 Stelle è di fatto sul viale del tramonto.
Una vita essenzialmente breve quella della
creatura politica di Grillo e Di Maio,
segnata dalla mancanza di competenze e preparazione dei suoi portavoce,
dall’eccessivo livello di trasversalismo assunto dalla base e dalle conseguenti
batoste rimediate nelle urne. Di quel
33% ottenuto alle politiche del 2018 è rimasto poco o nulla: in principio
fu la guerra al vertice persa con la Lega,
seguita dal sorpasso del Partito
Democratico prima e dall’imminente lotta-salvezza poi (ingaggiata ad
esempio con Forza Italia), la quale
sta costringendo i pentastellati a fare i conti con percentuali sempre più
risicate, sia in ambito nazionale che in quello locale.
Le
elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria sono dietro l’angolo. Il 26 gennaio può rappresentare una data spartiacque per il partito ma
soprattutto per Luigi Di Maio, la
cui leadership comincia a vacillare; nonostante le ripetute smentite dei giorni
scorsi, l’ipotesi di eventuali dimissioni non sarebbe del tutto da scartare:
una più che pronosticabile sconfitta nella suddetta tornata elettorale,
infatti, potrebbe portare il ministro degli Esteri a compiere un’immediata
riflessione sul suo futuro e su quello della compagine di cui è a capo.
Ma se da un lato il ruolo del M5S in Emilia-Romagna è esclusivamente
quello dell’innocuo terzo incomodo (troppo ingombranti le figure di Stefano Bonaccini e Lucia Borgonzoni per il poco
sponsorizzato candidato grillino Simone
Benini) dall’altro il direttorio pentastellato può sperare nel candidato
alla presidenza della regione Calabria Francesco
Aiello, forte della tradizione favorevole, seppur affievolita, del
Movimento nel sud del Paese.
Gli ultimi sondaggi disponibili rispecchiano il
panorama nazionale: il M5S è in caduta
libera, ma un’eventuale debacle non influirà sulla tenuta del governo.
Staccare la spina adesso non conviene al M5S – davvero poche le chance di
replica – né al Partito Democratico, tra le cui fila tira aria di congresso oltre
che di rivoluzione. Una crisi tempestiva porterebbe la Lega e i suoi alleati
direttamente a Palazzo Chigi, Nicola
Zingaretti ne è consapevole: per offrire al Paese una valida alternativa al
centrodestra di stampo sovranista occorre tempo oltre che un restyling d’immagine
e contenuti (senza peraltro accantonare l’idea di una nuova denominazione).
In questo scenario politicamente drammatico per
il Movimento 5 Stelle, si sta
tracciando, dunque, la strada che conduce il partito del Vaffa-day verso una
fine praticamente annunciata. Il baratro nel quale si sono susseguite non poche
fazioni qualunquiste del passato (e talvolta del presente) attende un
agglomerato di illusione e odio, figlio dell’inconcludenza e dell’opportunismo,
fattore ineluttabile se connesso al potere. A testimoniare tale cammino lento e
sventurato, la spugna gettata dall’elettorato e la bandiera bianca accarezzata nervosamente
dai militanti più risoluti: è un addio
alle armi, signori, alla presenza di un sole fioco che stenterà a
risorgere.