Maria Elena Capitanio è l’autrice di “La deriva del femminismo. Dalle suffragette al movimento Me Too”.
La giornalista compie un excursus storico, ripercorrendo le fasi della lotta della donne per il riconoscimento dei pari diritti, lasciando spazio ad ampie riflessioni sul futuro del femminismo in Italia e nel mondo.
Maria Elena, il tuo libro parte dal movimento delle suffragette, fondamentali per il riconoscimento del voto alle donne. Quanto è stato importante, più in generale, il femminismo nella storia e come è cambiato nel corso di questa?
Il termine “femminismo” è apparso per la prima volta nel 1837, quando lo usò il francese Charles Fourier , ma già all’inizio del Settecento le donne in diverse parti del mondo avevano iniziato a mettere in discussione il cosiddetto “ruolo naturale” femminile, facendo anche le prime proteste. Poi è ovvio che essendo l’uomo a controllare la documentazione storica, le tracce della ribellione in rosa potrebbero essere state nascoste come se tale ribellione non ci fosse mai stata. In ogni caso con l’avvento dell’Illuminismo, tra la fine del diciassettesimo e l’inizio del diciottesimo secolo cresce il dibattito sulla libertà dell’individuo ed è in questo terreno fertile che si innesta il seme della lotta all’emancipazione madre, o meglio antenata, del movimento che conosciamo oggi. Le iniziative che fiorirono nel contesto della rivoluzione degli Stati Uniti e in Francia alla fine del Settecento non diedero tanti risultati, ma di sicuro ebbero il merito di spingere le donne a non mollare fino a obiettivo raggiunto. Sul piano dell’evoluzione del femminismo si può usare la convezione dei sociologi che lo dividono in tre, alcuni in quattro ondate. La prima è quella della metà del Diciannovesimo secolo in Europa e America, legata soprattutto all’abolizione della schiavitù, e che finisce con l’avvento del suffragio universale. La seconda ondata parte dal secondo dopo guerra e si identifica con il Movimento di liberazione della donna. Qui l’argomento cardine era il diritto all’aborto, così come la tutela dalle violenze fisiche. La terza ondata, invece, parlò di libertà sessuale e di obiettivi femministi in una società capitalistica. Ovviamente si tratta di una sintesi estrema rispetto alla complessità dell’argomento. La quarta ondata, infine, porrebbe essere sovrapposta al MeToo, termine nato nel 2006 ad opera dell’attivista Tarana Burke per sensibilizzare sugli abusi e le molestie sessuali, poi esploso in un movimento globale nel 2017, con un’inchiesta del New York Times sul produttore Harvey Weinstein e il dorato mondo di Hollywood.
Oggi ha ancora senso parlare di femminismo?
Credo sarebbe meglio usare il termine “sorellanza”, peraltro già molto diffuso nel mondo anglosassone, che non è ammantato dell’aggressività che negli ultimi anni ha infettato la lotta per l’emaciazione femminile. Come categoria salverei il femminismo storico, che ha portato progressi, ma non il neo femminismo radicale, quello che ringhia per presa di porzione ideologica contro il maschio in quanto grande oppressore della donna, che vive una corta di eterogenesi dei fini.In sostanza bisognerebbe dividere l’uguaglianza delle opportunità tra i sessi, che promuove condizioni di partenza simili, ed è sacrosanta, dall’egualitarismo dei risultati, che tende a essere ingiusto e subdolamente discriminatorio.
Nella sua prefazione al libro, Francesco Borgonovo ci spiega che il confronto col maschio e il femminismo neo-radicale “uccidono le femmine, eliminando la differenza di genere, cancellando tutte le caratteristiche distintive del sesso femminile, per poi trasformare le donne in una minoranza tra tante.” Puoi spiegarci meglio questo concetto?
Il femminismo libertario che nega che tra uomo e donna ci siano alcune differenze innate, come se non esistesse neppure una diversità biologica, fa del male alle donne stesse. Alla presentazione del mio libro alla Camera dei Deputati, nel luglio scorso, era presente come relatore lo psichiatra di fama internazionale Luca Pani, il quale ha spiegato come, ad esempio, il cervello sia diverso tra uomo e donna. Il primo ha più materia grigia, più neuroni per intenderci, la seconda ha più materia bianca, cioè più connessioni neuronali. Questo fa capire che di certo abbiamo dei meccanismi mentali diversi. Altra differenza, tra le tante, è che noi donna possiamo portare in grembo un figlio, cosa che, per forza di cose, ci distingue nel mondo del lavoro e nella gestione delle nostre carriere. Poi ci sono differenze emotive e di fragilità fisica, di aspettative di vita, ecc. Questo è un discorso fatto in maniera generica, ma è per dire che il cammino di emancipazione non passa più attraverso le celebrazione dell’uguaglianza naturale e rigida tra i due sessi, ma livellando i punti di partenza. Se fossi al governo io mi concentrerei sul superamento del pay gap, cioè della differenza salariale che penalizza drammaticamente le donne sul lavoro e sul congedo di paternità, che se reso obbligatorio e lungo in termini di temporali, darebbe agli uomini un nuovo ruolo all’interno della famiglia e di conseguenza all’interno della società. A questo secondo provvedimento andrebbe affiancata la pratica dell’affido condiviso dei figli in fase di divorzio, salvo casi in cui non è possibile per le ragioni che il giudice stabilirà di volta in volta. Il motivo? Una equa distribuzione delle responsabilità genitoriali che spesso, anche in termini logistici, ricade tutta sulle donne, con gli uomini che una volta divorziati finiscono nel limbo degli eterni adolescenti, spesso contro il loro volere.