La blockchain all’interno del paradigma 4.0

L’attività manifatturiera è un settore dell’industria che, sostanzialmente, trasforma le materie prime in prodotti finiti. In altri termini, essa rappresenta l’attività umana mirata alla produzione di beni attraverso un meccanismo di trasformazione delle materie prime in oggetti destinati al consumo, ossia il prodotto finito o semilavorato, destinato ad un’ulteriore attività manifatturiera.

Nell’aprile del 2011 i consulenti del governo tedesco Henning Kagermann, Wolf-Dieter Lukas e Wolfgang Wahlster presentavano, durante la Fiera manifatturiera di Hannover, l’ormai celebre Industrie 4.0: Mit dem Internet der Dinge auf dem Weg zur 4. Industriellen Revolution, nel quale veniva utilizzato, per la prima volta pubblicamente, il termine “Industria 4.0” (4 punto 0, M.Temporelli, F.Colorni, B.Gamucci, Hoepli, 2017, pagg.6-7). Come suggerisce il titolo stesso, l’Industria 4.0 riguarda, principalmente, il cosiddetto “Internet delle cose”. L’innovativo paradigma – stando anche al Zukunftsprojekt Industrie 4.0 – si può sintetizzare in due concetti chiavi: “automatizzazione” (qualcosa già presente nella Terza rivoluzione industriale) e “interoperabilità” degli asset produttivi.

Oltre all’IoT (“Internet of Things”) e alla relativa sensoristica, sono state subito individuate come tecnologie e piattaforme tecnologiche principali:

  • Additive manufacturing (volgarmente noto come “stampa 3D”);
  • Digital fabrication (insieme di macchine utensili a controllo numerico);
  • Robotica programmabile (robotica industriale flessibile e agile);
  • Cloud computing (archiviazione ed elaborazione dati in rete);
  • Big data (raccolta e gestione di una grande mole di dati eterogenei);
  • Intelligenza artificiale (machine learning e deep learning applicate, ad esempio, all’analisi predittiva e, più in generale, alla business intelligence);
  • Cyber security (sicurezza informatica).

La blockchain è d’interesse per l’Industria 4.0 in quanto consente di preservare il dato e, conseguentemente, di garantire sicurezza e affidabilità a tutta la filiera produttiva e di distribuzione. Se, inoltre, si vede nella “decentralizzazione” un concetto pienamente 4.0, allora la blockchain costituisce necessariamente uno degli strumenti principi del nuovo paradigma, in quanto consente la totale rimozione degli intermediari nelle transazioni, permettendo alle parti coinvolte di confidare nell’infrastruttura stessa anziché in un garante tradizionale. La blockchain ha già trovato impiego nelle industrie di trasformazione, nella gestione della logistica di prodotto (sia interna sia esterna) e nella gestione dei rapporti di filiera. In Italia è di particolare interesse per la lotta alle contraffazioni del “made in Italy” (ad esempio, – similmente a quanto già fatto (2018) da Carrefour col pollo contadino di Auvergne – del cosiddetto “Italian sounding food”) (The Business Blockchain, Certified Blockchain Experts, Edizioni Efesto, 2019, pag.20). Stando ad uno studio dell’Osservatorio “Blockchain & Distributed Ledger” del Politecnico di Milano, in Italia nel 2019 e nel 2020 sono stati investiti (complessivamente) oltre 50.000.000€ in progetti blockchain (“Ricerca 2020 su Blockchain & Distributed Ledger”, Osservatorio “Blockchain & Distributed Ledger” del Politecnico di Milano.

Per chi volesse approfondire le blockchains per l’autenticità dei prodotti alimentari, segnaliamo un ulteriore prodotto già esistente, sviluppato in Italia da Apio e particolarmente promettente: si tratta di “Trusty” (si veda “Trusty – Come funziona” al link https://www.trusty.id/?fbclid=IwAR1cm3YLQDpGt37TNomSwSy9E6yUeeABv76HX6N_9Jjztqsc39ugewKMb WQ).

Sono state sviluppate soluzioni blockchain-native che permettono di portare la logica del “Trust”, che è ampiamente utilizzata nell’ambito dei pagamenti digitali, anche nell’ambito delle transazioni che hanno come oggetto “pacchetti” di dati, che rappresentano l’identità di determinati prodotti e delle relative logiche di produzione. Ciò consente, tra l’altro, di creare asset digitali unici.

La soluzione del cosiddetto problema del “double spending” rende la blockchain lo strumento più promettente per la cosiddetta “economia digitale decentralizzata”: non essendo infatti necessario un ente centrale che garantisca che uno stesso asset – una crittovaluta o qualunque altro oggetto digitale (“token”), quale, ad esempio, un bonus ecologico – figuri trasferito, contemporaneamente, a due utenti diversi, si aprono nuovi scenari dall’ampio potenziale innovativo.

Una precisazione linguistica: quasi tutti, ormai, scrivono “criptovaluta”, ma è orrendo! Se “cryptography”, che pure contiene κρυπτός nell’etimo, è sempre stata “crittografia”, perché “cryptocurrency” dovrebbe costituire un’eccezione?

È stato recentemente coniato il termine “Tokenomics”. Si definisce “token” un qualunque asset digitale, basato su blockchain, che può essere scambiato tra due parti senza che sia necessaria l’azione di un intermediario. Un token può essere visto come un insieme di informazioni digitali, tutte registrate su una blockchain, in grado di conferire diritto di proprietà ad un soggetto e che possono essere trasferite tramite un protocollo. Può eventualmente incorporare anche altri diritti addizionali, nel caso governati da programmi informatici detti “smart contracts”.

Purtroppo, il termine “Tokenomics” è stato inesorabilmente associato al fenomeno delle ICOs (Initial Coin Offerings), le quali, in seguito al successo di Ethereum (2015), hanno proliferato, portando ad un significativo abbassamento della qualità media dei progetti tecnologici finanziati attraverso tale strumento. Le cosiddette “Security Token Offerings” (STOs), tuttavia, sembrano promettere un rilancio della Tokenomics.

Gli “smart contract” sono, essenzialmente, trasposizioni in codice di contratti veri e propri e servono a verificare in automatico l’avverarsi di determinate condizioni e di auto-eseguire in automatico azioni nel momento in cui le condizioni determinate tra le parti sono raggiunte e verificate. In altre parole, il codice

  • tiene conto sia delle clausole che sono state concordate – prima dell’inserimento dello smart contract in questione nella blockchain – sia delle condizioni operative nelle quali deve verificarsi quanto concordato;
  • si auto-esegue automaticamente nel momento in cui i dati riferiti alle situazioni reali corrispondono ai dati riferiti alle condizioni e alle clausole concordate.

Per conoscenza, riportiamo brevemente la definizione giuridica di “smart contract” introdotta, per la prima volta nel nostro ordinamento, dalla L. 12/2019 (di conversione del D.L. 135/2018): si definisce “smart contract” un programma per elaboratore che opera su tecnologie basate su registri distribuiti e la cui esecuzione vincola automaticamente due o più parti sulla base di effetti predefiniti dalle stesse.

Gli smart contracts consentono l’implementazione delle cosiddette “Decentralized Applications” (“dApps”). Essenzialmente, si tratta di apps il cui funzionamento non può prescindere dall’infrastruttura blockchain, poiché necessitano dell’esecuzione di uno o più smart contracts.

Dal momento che le dApps sono sviluppate su rete decentralizzate e basate su algoritmi di consenso (perlopiù Ethereum o Hyperledger), è virtualmente impossibile che una terza parte le possa manomettere: nessun malintenzionato potrà cambiare il codice o compromettere tutti gli utenti (né i nodi che fanno attivamente parte della rete). Poiché i nodi non sono geograficamente localizzati nello stesso posto, le dApps hanno inoltre downtime zero (Mastering Ethereum: Building Smart Contracts and DApps, Andreas Antonopoulos e Gavin Wood, O’Reilly, 2018).

Poiché all’assenza di un intervento umano corrisponde anche l’assenza di un contributo interpretativo, lo smart contract deve essere basato su descrizioni estremamente precise per tutte le circostanze, tutte le condizioni e tutte le situazioni che devono essere considerate. Pertanto, la gestione dei dati, e dei big data in particolare, costituisce un fattore critico essenziale per stabilirne la qualità: un esempio viene dal mondo delle assicurazioni per autoveicoli che, sulla base di dati rilevati grazie ad apparecchiature IoT a bordo delle vetture, sono in grado di fornire dati sul comportamento del conducente che possono influire e creare determinate condizioni, le quali attivano o disattivano clausole di vantaggio o svantaggio.

Anche nell’IoT la blockchain ha già trovato impiego: essa è infatti utilizzata come piattaforma per soluzioni che hanno lo scopo di gestire l’identità delle “cose”. Grazie alla corretta identificazione della loro identità, è possibile dare vita a soluzioni di certificazione delle filiere basate anche sui dati che arrivano dai partecipanti all’IoT. Oggi è importante rendere sempre più sicuro il riconoscimento end-to-end di oggetti virtuali o fisici: anche le “cose”, infatti, possono gestire transazioni. Attualmente, è grazie a user ID e password, o a speciali certificati, che è possibile identificare le persone online; in determinati casi, sempre più frequenti, anche le “cose” hanno bisogno di farsi identificare, senza che delle persone fisiche siano necessarie per questo (The Business Blockchain: Promise, Practice, and Application of the Next Internet Technology, William Mougayar, Wiley, 2016).

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