Un nuovo Medioriente sta sorgendo dalle ceneri della Pax americana. Vecchi autocrati escono dall’isolamento internazionale. Antiche rivalità vengono messe da parte nel nome della realpolitik. Equilibri consolidati, o così si credeva, crollano come se fossero dei castelli di carta.
Un Mediterraneo quanto mai anarchico, dove il multipolarismo è arrivato per restare, è il teatro in cui l’Italia si ritrova costretta a operare. Glielo impone la geografia.
La trasposizione in realtà del cosiddetto Piano Mattei, la strategia in the making del governo Meloni per il ritorno dell’Italia nella storia, sarà più facile a dirsi che a farsi. Perché il Mediterraneo ha cessato da tempo, dal 2011, di essere il Mare nostrum. Oggi è il Mare lorum – le potenze emergenti dell’Asia, del Medioriente e del Nordafrica.
Guidati dall’obiettivo di capire quali sono le sfide provenienti dal Mediterraneo che attendono l’Italia all’orizzonte, abbiamo intervistato l’analista geopolitico Giuseppe Manna (Aspenia Online).
La caduta di Mu’ammar Gheddafi ha spianato la strada all’arrivo del multipolarismo nel Mediterraneo. Oggi l’Italia, ma in esteso le potenze europee, per operare nella regione devono tenere in considerazione un insieme complesso e intricato di fattori e interessi, un tempo assenti o superflui. Guardiamo e pensiamo alla Libia, ad esempio, dove ormai agiscono, hanno assetti e sfere d’influenza turchi, russi, emiratini, egiziani e forze non statuali. In che modo il cosiddetto piano Mattei potrebbe aiutare l’Italia a riacquistare centralità nel Mediterraneo?
Per rispondere a questa domanda complessa, è necessaria prima qualche considerazione sugli aspetti più importanti della storia mediterranea degli ultimi quindici anni.
Quando, nel dicembre 2010, Muhammad Bouazizi si tolse la vita perché stanco dei soprusi della polizia, nessuno avrebbe immaginato che, dal gesto disperato di questo venditore ambulante di una cittadina della Tunisia profonda, sarebbero partite le proteste e le rivolte capaci di sconvolgere molti Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. Regimi che apparivano immutabili iniziarono a scricchiolare sotto il peso delle manifestazioni, fino a crollare.
I cambiamenti tanto attesi non sarebbero stati all’altezza delle aspettative. Ma, in quelle settimane, la rabbia popolare esplodeva con forza. Le ragioni erano essenzialmente economiche: gli striscioni nelle piazze e ai balconi chiedevano pane e lavoro. Le rivendicazioni di più ampi diritti civili e politici sarebbero arrivate dopo.
Il copione fu molto simile dappertutto, dalla Tunisia all’Egitto, dal Marocco allo Yemen. La Libia non fece eccezione, con i cittadini disposti a sfidare il regime quarantennale di Gheddafi per esigere una distribuzione più equa delle favolose ricchezze petrolifere accumulate dal rais e dai suoi fedelissimi.
Quanto accadeva nell’antica colonia italiana suscitò l’attenzione della Francia: si trattava di un’ottima occasione per favorire la nascita di un regime più favorevole agli interessi di Parigi. Gli appetiti francesi furono avallati dal Regno Unito e si arrivò all’intervento della NATO, non ostacolato dagli americani, che avevano conti in sospeso con Tripoli. L’Italia, già indebolita dalle conseguenze della crisi economica del 2008 e sprofondata nella fase più drammatica della crisi dei debiti sovrani, non ebbe la forza di opporsi a scelte altrui. La scommessa francese però non portò i frutti sperati e il Paese precipitò nel caos della guerra civile, dal quale ancora oggi stenta a riprendersi.
Questa premessa è necessaria per capire le caratteristiche geopolitiche dello scacchiere mediterraneo attuale. Le cosiddette primavere arabe del 2011 hanno fatto da catalizzatore a fenomeni già in corso da anni. La funzione di perno delle rotte marittime internazionali e di cerniera tra Europa, Asia e Africa fa dell’antico mare nostrum un teatro irrinunciabile per qualsiasi Paese impegnato a scalare la gerarchia di potenza globale. La proiezione marittima non può prescindere da un solido retroterra dal quale operare. Questo si traduce nella necessità di basi sicure per le navi militari, di infrastrutture adeguate e nella possibilità di operare senza troppi vincoli. Tale ambiente è facile da creare nel quadro del territorio nazionale. Più difficili sono le cose all’estero. I mezzi per convincere un altro Paese a consentire ad altre potenze di utilizzare gli spazi sotto la sua sovranità sono i più disparati, dalla promessa di investimenti alla cooperazione culturale, dalla coercizione militare alle pressioni politiche.
Le cosiddette primavere arabe hanno determinato situazioni di vuoto geopolitico. Questo tende subito a essere colmato da altri che prendono il posto di chi va via. È successo in Siria, dove la guerra civile ha consentito a russi, turchi e iraniani di spartirsi la carcassa del martoriato Paese mediorientale attraverso il sostegno tutt’altro che disinteressato al regime di Assad in lotta per la sopravvivenza. Ed è successo in Libia.
Fallito il progetto francese e tolto di mezzo Gheddafi, nel caos si sono inseriti tutti quanti erano interessati all’antica colonia italiana. I turchi, con l’appoggio del Qatar, si sono stabiliti a Tripoli. Gli emiratini, gli egiziani e i russi appoggiano le fazioni e le tribù della cirenaica riunite intorno al generale Khalifa Haftar. Senza contare gli attori non statuali, dai tagliagole del sedicente Stato islamico ai trafficanti di ogni tipo che ne approfittano per i loro loschi affari.
E l’Italia?
Beh, in Libia ormai non contiamo quasi più nulla – diciamolo con franchezza. Siamo riusciti a mettere uno dietro l’altro tanti e troppi errori. Un esempio su tutti: quando, nell’aprile del 2019, Haftar cingeva d’assedio Tripoli, il governo di Fayez al Sarraj, ufficialmente riconosciuto dalla comunità internazionale, chiese aiuto a tutti i Paesi che si dichiaravano amici. Da Roma giunse soltanto un assordante silenzio. Considerazioni politiche ed elettorali, incapacità di scelte tempestive e una certa inesperienza nella gestione degli affari internazionali, indussero l’esecutivo di allora a tergiversare fino a non fare completamente nulla.
Non fu così ad Ankara, che subito inviò armi e uomini, sia delle forze regolari sia mercenari siriani. Quella scelta permise ai turchi di accumulare crediti verso Tripoli, che ora stanno pagando succosi interessi. Il primo passo fu l’accordo sulla delimitazione delle frontiere marittime del novembre 2019, seguito da intese in numerosi altri settori. Oggi non si può fare niente in Tripolitania senza l’assenso dei turchi.
Per l’Italia, tuttavia, non tutto è perduto. Disponiamo ancora di un consistente capitale da spendere sul piano internazionale, fatto di un tessuto di imprese unico in Europa, di professionisti nelle forze armate, nelle agenzie d’intelligence e nella pubblica amministrazione con grandi capacità operative e conoscenze approfondite dei teatri operativi.
Finalmente anche la classe politica, dopo decenni di generale abbandono e incuria, sembra avere maggiore consapevolezza che l’Italia non può più permettersi di non fare sistema all’estero e continuare a rimanere ripiegata su sé stessa.
Il cosiddetto piano Mattei va nella giusta direzione e dimostra continuità in politica estera tra i governi Draghi e Meloni. Questo approccio parte dalla consapevolezza che il potenziale d’azione internazionale del nostro Paese è sfruttato solo in parte.
Ci sono ampi margini per avviare una collaborazione seria e strutturata, scevra da appetiti neocolonialisti e basata sulla cooperazione win-win, con gli Stati dell’area che Roma considera di primaria importanza strategica, estesa dal Golfo di Guinea al Mare Arabico.
Si tratta di un importante passo in avanti dopo gli anni della navigazione a vista e del piccolo cabotaggio. Manca ancora una riflessione organica sul contenuto preciso dell’espressione “interesse nazionale”: prima si definiscono gli obiettivi e successivamente si riempie la scatola degli attrezzi per perseguirli. Noi abbiamo fatto un po’ il contrario, ma dopo il lungo inverno della nostra politica estera, tutto è meglio di niente per avviarci verso quella che, si spera, possa essere una discreta primavera.
Questa è l’era dello smart power e della competizione tra grandi potenze, ragion per cui gli investimenti nella proiezione di potere morbido potrebbero non essere sufficienti a garantire sicurezza all’Italia. Personalmente, ritengo che ci sia molto da imparare dal modello turco: cultura e cooperazione allo sviluppo come apripista ad accordi securitari, militari e partenariati strategici. Per la Turchia, in sintesi, il soft power è sempre il primo mattoncino di un edificio molto più alto e sfaccettato. Quale pensi che dovrebbe essere il modello dell’Italia per navigare le acque agitate della contemporaneità?
A seguito della pandemia da Covid-19 e dell’aggressione russa dell’Ucraina siamo entrati in una fase inesplorata delle relazioni internazionali. Non vorrei apparire pessimista, ma dinanzi a noi mi sembra si stia profilando una stagione di turbolenze dagli esiti imprevedibili e carica di pericoli.
Dal 1945 siamo stati abituati ad agire secondo gli schemi rassicuranti del mondo bipolare, seguiti da tre decenni di bonaccia garantita dall’assenza di sfidanti al primato degli Stati Uniti. Ora le cose sono diverse. Washington si concentra sul confronto con Pechino e guarda all’Indo–Pacifico per contenere le ambizioni cinesi. L’Europa resta il gioiello più prezioso dell’impero informale degli americani, al quale non sono disposti a rinunciare. Ciononostante, la crisi di identità che lacera il loro tessuto sociale si traduce, sul piano internazionale, in una generale stanchezza e indisponibilità a sovvenire ai bisogni di sicurezza degli alleati al di là dell’atlantico.
Il conflitto in Ucraina non sarebbe mai cominciato se i russi non avessero percepito un indebolimento degli Stati Uniti, che non si traduce tanto in difficoltà militari o economiche quanto in una certa riluttanza a fare ancora i poliziotti del mondo. Che poi Putin abbia commesso un clamoroso errore di valutazione, sottovalutando la determinazione occidentale a sostenere gli ucraini (almeno per il momento), questo è un altro discorso. Ma tanto basta a capire che il barometro della politica internazionale segna tempesta.
L’Italia non può permettersi il lusso di farsi trovare impreparata. I parametri con i quali ci rapportavamo al resto del mondo non funzionano più. Noi italiani, forse più di altri, abbiamo fatto di tutto per convincerci che la storia avesse abdicato in favore di un mondo fatto di politicamente corretto e rispetto delle regole.
Gli ultimi due anni ci hanno fatto capire (si spera) che dobbiamo invertire la rotta. E prepararci a competere, se necessario anche sul piano militare, con chiunque minacci i nostri interessi. Questo non significa assumere atteggiamenti bellicosi o aggressivi. Però c’è bisogno della consapevolezza che il mondo è cambiato e bisogna adeguarsi.
Oggi è importante più che mai avere rapporti di buon vicinato con gli altri Paesi mediterranei, in modo particolare con quelli della sponda sud. A questo proposito, il modello turco, cui fai riferimento, si adatta molto bene alle esigenze dell’Italia. Anche perché noi partiamo da una base di buoni rapporti sui quali poter costruire facilmente relazioni e promuovere i nostri interessi. Partire dalla collaborazione culturale e dalla cooperazione allo sviluppo, per poi arrivare ad accordi militari e di partenariato strategico, e senz’altro una scelta vincente.
E su questo abbiamo molto da imparare dalla Turchia. Un esempio su tutti: in Tunisia, prima dell’avvento di Kais Saied al potere, Ankara ha sfruttato le affinità ideologiche del presidente Erdoğan con il partito di Ennahda, che ha sostenuto molti dei governi degli ultimi dieci anni. I turchi sono partiti finanziando la costruzione di moschee e centri culturali islamici come primo passo in vista di accordi di carattere economico e militare. Ankara ha ben presente il valore strategico della Tunisia nel Canale di Sicilia e aveva cominciato sapientemente a tessere una rete di relazioni via via più fitte. Il cambio di regime ha fatto naufragare i piani di Erdoğan nel Paese maghrebino, ma questo approccio ma mostrato tutta la sua efficacia.
La rivalità Marocco-Algeria è la “questione karabakha” del Nord Africa. L’Italia ha ottimi rapporti con entrambi, sebbene sia innegabile l’esistenza di una special relationship con l’Algeria. Come si sta muovendo il nostro Paese nel Sahara occidentale e come dovrebbe muoversi per non danneggiare i rapporti né con Rabat né con Algeri?
Pochi giorni fa, l’ambasciatore algerino a Roma, Abdel Karim Touahria, ha dichiarato che l’Italia è il principale partner dell’Algeria al mondo. In effetti, i rapporti tra i due Paesi stanno attraversando una stagione di particolare intensità. La luna di miele è cominciata nei mesi in cui Roma dovette sostituire velocemente le importazioni di gas russo come ritorsione per l’attacco all’Ucraina e in risposta al taglio dei flussi deciso da Mosca. Il governo Draghi dovette correre ai ripari e l’Algeria si presentò subito come il candidato ideale a coprire una parte degli ammanchi di gas russo: le infrastrutture esistevano già, in modo particolare il gasdotto Transmed che, attraverso la Tunisia, arriva fino in Sicilia, l’ENI opera nel Paese da decenni e c’erano margini per incrementare gli invii di gas senza danneggiare le installazioni.
A questo si aggiungono i rapporti di vicinanza tra Roma e Algeri, che risalgono alla lotta per l’indipendenza dalla Francia a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. In quella fase drammatica, la classe politica italiana non fece mancare il suo appoggio, più o meno esplicito, al Fronte di Liberazione Nazionale, suscitando l’ira di Parigi. Neanche l’allora presidente dell’Eni, Enrico Mattei, faceva mistero delle sue simpatie per l’indipendenza algerina. Non a caso, è ricordato come martire della guerra d’indipendenza a seguito dell’incidente aereo che ne provocò la morte in circostanze mai del tutto chiarite.
Il nostro Paese ha però buoni rapporti anche con il vicino Marocco e, in questo momento, si presenta come il candidato ideale per mediare tra Algeri e Rabat.
L’astio tra i due Stati maghrebini è di vecchia data e nasce da dispute confinarie sfociate in un breve conflitto armato nel 1963. Le cose si sono aggravate a seguito dell’occupazione marocchina del Sahara occidentale nel 1975. Questo territorio, un tempo possedimento coloniale spagnolo, aveva suscitato anche l’interesse dell’Algeria per le sue risorse minerarie e l’accesso alle pescose acque dell’Oceano Atlantico. Da allora, l’Algeria accoglie molti rifugiati sahrawi, soprattutto intorno all’oasi di Tindouf, e non perde occasione per denunciare quello che considera un sopruso marocchino.
L’Italia ha mantenuto sempre un atteggiamento cauto sul Sahara occidentale, oscillando tra l’appoggio a soluzioni di reciproco vantaggio politico, mai peraltro definite in termini chiari, e il sostegno ai progetti dell’Unione Europea, che riconoscono una blanda sovranità marocchina in cambio di cospicui investimenti economici da parte di Rabat, di un’ampia autonomia e del riconoscimento di diritti civili e politici ai sahrawi.
Per Roma sarebbe un grande successo di politica estera riuscire a portare Marocco e Algeria di nuovo al tavolo dei negoziati, soprattutto in questa fase particolarmente bassa nei rapporti tra i due Paesi, arrivati alla rottura delle relazioni diplomatiche. Ancora una volta, però, è necessario un ragionamento semplice ma essenziale. Una volta accertato che fare da mediatore è utile sia alla stabilità del Maghreb sia al rafforzamento della proiezione italiana nella regione, bisogna impegnarsi con costanza e decisione, senza improvvisare né apparire incostanti. È una grande opportunità per l’Italia, a patto di saperla cogliere.
La normalizzazione irano-saudita e il rientro della Siria nella Lega araba sono i segni di un epocale rimescolamento di carte in Medio Oriente. L’Italia e in esteso i Paesi occidentali come dovrebbero reagire all’apertura di nostri partner, dai sauditi agli emiratini, verso Iran e Siria? Seguire il trend? Osservare e decidere? O continuare a mantenere una politica per la regione indipendente da ciò che fanno gli attori regionali?
La normalizzazione dei rapporti tra Iran e Arabia Saudita è figlia della debolezza degli Stati Uniti percepita dal resto del mondo. Se Washington appare potente ma sfidabile, come Russia e Cina stanno tentando di testare rispettivamente in Ucraina e nell’Indo–Pacifico, anche attori di stazza inferiore si sentono meno vincolati. Questo vale anche per l’Arabia Saudita, che è stata una fedelissima alleata degli americani nel Golfo per decenni. I rapporti con Washington mantengono un carattere strategico ma, con l’amministrazione Biden, sono state numerose le occasioni di frizione, soprattutto con il sovrano de facto, Muhammad bin Salman. I sauditi non si sono allineati alle posizioni americane su questioni importanti. Riad ha risposto negativamente alla richiesta degli Stati Uniti di aumentare la produzione petrolifera per evitare tensioni sui prezzi a seguito del calo di offerta per l’indisponibilità occidentale ad acquistare idrocarburi da Mosca.
In queste frizioni si è incuneata la Cina, che ha conseguito un indubbio successo diplomatico, riuscendo a portare Riad e Teheran allo stesso tavolo per trovare un nuovo modus vivendi, anche se temporaneo.
In Siria credo che abbiano finito per prevalere considerazioni opportunistiche: Assad è non è stato abbattuto grazie al sostegno russo e iraniano e ora si profilano appetitose opportunità di affari nel business della ricostruzione nonché interessanti partite geopolitiche in quel quadrante levantino.
Vorrei però fare ancora qualche considerazione su quanto avvenuto tra le due sponde del Golfo. Credo sia espressione di un tendenza più profonda, che manifesta sintomi in tanti scenari di crisi sparsi per il globo. E cioè che l’Occidente a guida americana non rappresenta più un modello politico, sociale, economico, culturale e morale da seguire e imitare, ma solo uno dei tanti modi possibili di stare al mondo. È il grande Sud globale che acquisisce consapevolezza di sé e non considera più un limite avere usi e costumi, nel senso più ampio del concetto, frutto di un’evoluzione propria e diversa dal modello basato sul binomio democrazia-economia di mercato.
Non si tratta della ricerca di percorsi di organizzazione sociale alternativi, come era stato per i Paesi attratti dal modello sovietico negli anni del mondo bipolare. Ma di una presa di coscienza delle peculiarità di ogni Paese o macroregione che non bisogna negare o rigettare a priori. È la dimensione culturale della transizione verso un mondo multipolare, che segna la fine anche dell’ultimo baluardo della pretesa superiorità occidentale sul resto del mondo.