Italexit: è davvero la soluzione ai nostri problemi?

Nel corso degli ultimi anni, più precisamente in concomitanza con il ritorno ai piani alti della politica europea di personalità politiche filo-nazionalistiche, la figura dell’Unione Europea è stata più volte messa in discussione e, addirittura, si è assistito al primo grande scossone con la Brexit, ossia l’uscita del Regno Unito dall’UE. Nonostante però la perdita di valore della sterlina e le grandi difficoltà che il Primo Ministro inglese Boris Johnson sta avendo nell’affrontare l’emergenza covid da solo, quest’onda euroscettica si è propagata anche in Italia, con molti cittadini che chiedono l’uscita da quelle che, inopinatamente, alcuni esponenti politici chiamano “catene di Bruxelles”. A tal proposito, un gruppo di studenti della Bocconi, riunitisi nel progetto Tortuga, nato nel 2015, hanno studiato e provato ad analizzare le possibili conseguenze a medio-lungo periodo di un’eventuale uscita dall’Europa del nostro Paese. Il presupposto principale utilizzato è quello di un’uscita simile a quella inglese, quindi senza compromessi e con lo Stato che dovrebbe pagare milioni di penali dei vari contratti non rispettati con gli stati membri. L’analisi prevede lo studio di cinque fattori che sono stabilmente al centro del dibattito politico: bilancia commerciale, occupazione, conti pubblici, disuguaglianze sociali e welfare. Andando ad analizzare i risultati dei singoli fattori avremo:

BILANCIA COMMERCIALE

In una Nazione, la bilancia commerciale è l’ammontare delle importazioni e delle esportazioni. Gli euroscettici, giustamente, sostengono che un ritorno alla lira stimolerebbe quella che è la “svalutazione competitiva”, ossia una svalutazione arbitraria della moneta nazionale per rendere i prezzi più competitivi dei prodotti made in Italy in favore degli altri Stati (visto che pagherebbero di meno i prodotti per via di un valore più basso della moneta); ma questo ovviamente comporterebbe l’aumento dei costi di tutti i prodotti che l’Italia importa dall’estero. Questa mossa sarebbe ottima per la bilancia commerciale nel caso in cui aumentassero le esportazioni a favore di una spesa minore nelle importazioni per via dei prezzi eccessivi. Nella realtà dei fatti però, in un’economia globale composta da una serie di processi di produzione dei beni intermedi (quindi dei vari “pezzi” che compongono i beni finiti prodotti in altre Nazioni per convenienza), questo tipo di economia risulterebbe perfino controproducente, visto che i prezzi d’importazione dei beni intermedi necessari a completare i beni destinati all’esportazione risulterebbero molto alti. Al netto di tutto ciò, vanno considerate anche le “ripercussioni” da parte degli altri Paesi (un classico esempio può essere l’introduzione di dazi che annullerebbero i vantaggi della svalutazione)

OCCUPAZIONE

Un altro tema portato avanti dagli euroscettici è quello legato al mercato del lavoro. La tesi principale portata in campo è quella del: “solo con la sovranità monetaria si può raggiungere la piena occupazione”. Anche in questo caso però si dovrebbe passare per la svalutazione competitiva, che si tradurrebbe, in teoria, in maggiore ricchezza e posti di lavoro. Ma, dallo studio di Tortuga, risulta dimostrare il contrario, anche facendo riferimento a Paesi che hanno attuato la svalutazione in passato (sono state prese in esempio Svezia ed Australia). Dai dati è emerso che non solo, in caso di aumento dell’occupazione, questa risulterebbe minima, ma che addirittura si rischia di aumentare il tasso di disoccupazione. I motivi di questa mancata crescita sono ricollegabili ad una crisi bancaria e monetaria dovuta dal cambio della moneta e dal conseguente aumento dei prezzi che annullerebbero i vantaggi delle esportazioni. Queste condizioni si tradurrebbero in una diminuzione del PIL e, di conseguenza, in un calo dell’occupazione.

CONTI PUBBLICI

L’analisi di Tortuga, per quanto riguarda i conti pubblici, paragona la rottura con l’euro con un salto nel vuoto per le casse statali. Il passaggio ad una moneta di minor valore causerebbe una perdita importante ai creditori, che riotterrebbero un conio di minor valore rispetto a quello prestato ( in pratica, chi possiede i titoli di Stato italiani ne uscirebbe danneggiato e non poco e i mercati finanziari non guarderebbero più di buon occhio al nostro Paese per eventuali acquisti di Btp, ossia i  buoni del tesoro poliennale, che rappresentano un certificato di debito emesso dallo Stato italiano, con scadenza superiore all’anno solare). Al contrario, l’Italia si troverebbe costretta ad acquistare euro per ripagare i titoli in scadenza ai creditori, visto che difficilmente accetterebbero pagamenti con una moneta svalutata. Questa spesa per riacquistare i titoli di stato potrebbe far aumentare il debito nominale pubblico al 144%, generando un ulteriore sfiducia da parte dei mercati. A tutto ciò va aggiunto il tasso d’inflazione della nuova moneta, che l’analisi stima intorno al +7.5%, costituendo di fatto una sorta di “tassa invisibile” per i risparmi delle persone. In sostanza, il nostro “valore” come Stato si ridurrebbe e non di poco, generando una contrazione della crescita economica.

AUMENTO DELLE DISUGUAGLIANZE

Ovviamente, tutte le conseguenze descritte in precedenza si ripercuoterebbero sui cittadini. La prima conseguenza ipotizzata dallo studio è quella delle disuguaglianze sociali, che inevitabilmente aumenterebbero. L’aumento dell’inflazione andrebbe a ridurre molto alcune tipologie di redditi (quelli da lavoro indipendente e dipendente, pensioni e reddito da capitale) e farne le spese sarebbero le fasce meno ricche della popolazione, visto che le forme di ricchezza utilizzate, contanti o conti deposito, verrebbero colpiti dall’inflazione. 

Un ulteriore effetto della svalutazione competitiva sarebbe quello di creare disuguaglianze ancor più marcate tra nord e sud, perché trarrebbero vantaggio da essa praticamente solo le imprese del nord, responsabili di quasi il 90% dell’export nazionale.

WELFARE E AUSTERITY

Un’eventuale uscita, come sostenuto dalle forze antieuropeistiche, libererebbe l’Italia da quelle che vengono chiamate le “catene di Bruxelles”, ma questa non è una cosa immediata e tantomeno semplice da attuare. E’ sicuramente vero che l’uscita dall’eurozona libererebbe l’Italia dai vincoli comunitari, che sono praticamente il perno su cui si fonda l’euroscetticismo, ma comunque il nostro Paese, per far fronte alla crisi economica che si verificherebbe, sarebbe costretta ad affidarsi ad investitori internazionali, provocando una situazione paradossale. Infatti, per far fronte ai requisiti più alti richiesti da detti creditori, il nostro Paese potrebbe essere costretto ad attuare le tanto criticate misure di austerity per “rivalutarsi”. In caso contrario, lo scetticismo degli investitori nello spendere soldi in una nazione con un debito pubblico così alto porterebbe ad un ulteriore aumento della spesa per il servizio del debito, mentre la perdita di valore dei bond potrebbe provocare una sofferenza importante per le banche, che hanno già dei grandi numeri di btp tra i loro asset.

Al netto dell’analisi appena spiegata, è davvero conveniente, specialmente considerando le nostre attuali condizioni economiche e la nostra non eccezionale considerazione finanziaria ( il fatto che si cambi una riforma economica ogni anno ne è la dimostrazione), uscire dall’Unione Europea e continuare il nostro cammino da soli? Se dovesse presentarsi un’emergenza simile a quella che stiamo vivendo in questo momento, avremo le disponibilità economiche per affrontarla senza l’aiuto dell’UE? 

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