Nelle scorse settimane, il popolo israeliano era sceso in piazza per protestare contro il governo Netanyahu, con momenti di tensione e animose manifestazioni. Dopo l’attentato di ieri, il governo dovrà far fronte a un altro problema, che rischia di insanguinare improvvisamente il Paese. Una campagna terroristica mirata contro Israele, da un lato messa in atto dalle organizzazioni palestinesi, dall’altro supportata dall’Iran.
Pietro Baldelli, ricercatore per Geopolitica.info, con esperienza in prima persona nei territori d’Israele, ha esposto il suo punto di vista al nostro giornale.
Già durante la scorsa settimana, Israele era al centro di proteste. Tantissimi cittadini sono scesi in piazza contro il governo. Tant’è che Netanyahu ha posticipato la riforma della giustizia “per evitare una guerra civile”. Cos’era successo?
Sono ormai quattro mesi che settimanalmente si assiste a proteste di massa nelle principali città del Paese, cioè da quando nel gennaio scorso la maggioranza parlamentare ha portato in parlamento la riforma della giustizia, ora congelata. Al netto delle posizioni di merito, le scene a cui si è assistito dimostrano una realtà che spesso viene dimenticata o percepita come scontata: Israele, con i suoi limiti e i suoi problemi, rappresenta uno Stato e una società che esprime una vitalità democratica che è piuttosto difficile trovare altrove nella regione. Per quanto riguarda la riforma, il governo guidato da Netanyahu mira a una limitazione del potere giudiziario e, in particolare, della Corte Suprema, sostenendo che a causa dell’attivismo di quest’ultima, negli anni novanta si sia assistito a un rafforzamento eccessivo del potere dei giudici a discapito del potere esecutivo e legislativo. Mentre dal punto di vista delle opposizioni la riforma andrebbe a minare l’indipendenza della Corte Suprema, che finirebbe per subire un controllo da parte del governo, intaccando l’essenza democratica stessa del Paese. Tre sono i punti di maggiore contestazione. Il primo, l’istituzione di una ovverride clause, attraverso cui il parlamento con una maggioranza semplice può “scavalcare” una sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Suprema. Il secondo, una modifica nella composizione della commissione per la selezione giudiziaria, organo attraverso cui passano le nomine dei giudici della Corte Suprema. Se approvata, la riforma darebbe al governo un potere di nomina dei giudici stessi. Terzo, verrebbe meno il potere di controllo della Corte Suprema sulle così dette leggi base, ovvero le leggi di rango costituzionale.
Al netto delle posizioni di sostegno e opposizione alla riforma in questione, va detto che i problemi che connotano l’assetto istituzionale israeliano vengono da lontano, essendo causati dall’assenza di una vera costituzione. Lo scontro sul tema della giustizia va letto quindi come un tassello di un mosaico più ampio. Ad oggi infatti l’ordinamento istituzionale israeliano si regge sulle così dette “leggi base”, che a partire dalla sentenza della Corte Suprema sul caso “Hamizrahi Bank” del 1995 sono state dichiarate leggi di rango costituzionale. La mancanza di una vera carta costituzionale è il peccato originale dell’assetto statuale israeliano, a sua volta sintomo dell’impossibilità di una società già in origine divisa da profonde linee di faglia di arrivare a un compromesso per rispondere alla seguente domanda: chi è Israele? Le quattro tribù che compongono la società israeliana – richiamando le parole dell’ex presidente Rivlin – ovvero gli ebrei laici, gli ebrei nazional-religiosi, gli haredìm e gli arabi, non riescono a mettersi d’accordo su quali debbano essere i principi guida su cui costruire un ordinamento costituzionale, identitario e valoriale che possa reggere. Il modello spurio di Israele come “Stato ebraico e democratico” sta mostrando le sue fragilità, dinnanzi alla difficoltà di conciliare due caratteri tra loro potenzialmente antitetici. A ciò si aggiungono le trasformazioni demografiche in corso, che stanno rimescolando l’equilibrio tra i quattro settori della società menzionati, alzando ulteriormente il livello dello scontro interno, fino al rischio paventato dal presidente Herzog prima e dal premier Netanyahu poi di una “guerra civile”. In questo senso, è condivisibile la lettura proposta dall’ex premier e attuale leader dell’opposizione, Yair Lapid, secondo cui solo l’approvazione di una carta costituzionale potrà porre un freno allo smembramento della società, della politica e delle istituzioni dello Stato israeliano, in balia di un senso di incompiutezza.
L’attentato di ieri a Tel Aviv ha causato molti feriti e una vittima italiana, Alessandro Parini, che era in viaggio per turismo. Come si commenta un episodio del genere, al di là dello sdegno per un gesto omicida come quello terroristico?
L’attentato di ieri è solo l’ultimo terribile episodio di una vera e propria campagna terroristica iniziata nel marzo 2022 contro lo Stato di Israele. Non si può più parlare di un’ondata di terrorismo, ma di una vera e propria campagna, dietro la quale si cela una razionalità strategica e una paternità chiara: da un lato, la galassia delle organizzazioni palestinesi, dall’altro la longa manus dell’Iran. A sostengo di questa tesi che vedrebbe un ruolo iraniano, va evidenziato come l’organizzazione terroristica maggiormente attiva in questo tipo di azioni è il Jihad islamico palestinese (JIP), e non Hamas. Anche l’attentato di ieri è stato rivendicato dal JIP, che pure in questi mesi sfrutta l’attivismo di lupi solitari provenienti dai Territori palestinesi, in particolare la Cisgiordania, o l’azione di cittadini arabi con passaporto israeliano, come pare essere l’attentatore di Tel Aviv. A differenza di Hamas, il JIP rappresenta una piccola organizzazione che non mira a governare un territorio ed ergersi a entità para-statale in sostituzione della moribonda Autorità nazionale palestinese. Inoltre, sia da un punto di vista ideologico-politico che militare-logistico, si tratta di una creatura che si regge sul sostegno iraniano e con Teheran coordina le proprie mosse. A fianco al JIP sono sorte in queste settimane piccole milizie, frange indipendenti e gruppi armati che agiscono in contesti molto specifici e circoscritti. Si pensi al gruppo Lions’ Den, attivo nel distretto di Nablus in Cisgiordania, o alla Jenin Brigade, attiva a Jenin. Queste, come altre sigle, sono formate da personaggi fuoriusciti o ancora legati alle organizzazioni più famose, come appunto il JIP.
In generale, comunque, mi sembra piuttosto evidente come ci sia un disegno strategico chiaro dietro questa campagna, di matrice iraniana. Dopo anni di completo isolamento nella regione, manifestatosi con la firma degli accordi di Abramo e la creazione di un asse arabo-israeliano, l’Iran ha compreso la necessità di trascendere i tradizionali steccati del così detto “asse della resistenza” – cioè l’alleanza con i suoi partner di lungo corso, come Assad in Siria, Hezbollah e le altre milizie nella regione, dall’Iraq allo Yemen – per giocare alcune carte anche nel campo avverso. Due sono le direttrici della sua nuova strategia regionale anti-israeliana. Sul fronte diplomatico, la distensione con le monarchie sunnite del Golfo. Ne è un esempio il riavvicinamento con gli EAU in corso ormai da due anni, ma anche e soprattutto la normalizzazione con l’Arabia Saudita, mediata dalla Cina. Sul fronte militare, lo sfruttamento delle debolezze del fronte domestico israeliano. Creando delle esche che possano portareIsraele a compiere dei passi falsi nella gestione “quotidiana” del conflitto con i palestinesi, l’Iran mira a tenere alto il livello di condanna internazionale nei confronti dello Stato ebraico, trovando orecchie ricettive soprattutto in Europa. A ciò va aggiunta la vera posta in gioco, rappresentata dalla volontà di mettere in discussione la tenuta dell’asse abramitico. Per Teheran è al momento prioritario far deragliare la luna di miele tra Israele e Paesi arabi. Concretamente ciò vuol dire soprattutto evitare un ingresso dell’Arabia Saudita negli accordi.
È evidente che le variabili che spiegano la scia terroristica in corso siano molte, e che tra le concause ci sia un sentimento diffuso di insoddisfazione ed esasperazione da parte palestinese, soprattutto tra i giovani, privati di qualsiasi orizzonte politico-diplomatico di soluzione al conflitto con Israele. Ma sarebbe altrettanto ingenuopensare che, soprattutto nella scelta delle tempistiche, quella in corso sia una mera reazione di resistenza e rabbia popolare che non abbia alcun legame con il contesto regionale.
Quali potranno essere le reazioni di Israele dopo l’attacco terroristico subito?
Per il momento, al netto delle dichiarazioni forti, il governo Netanyahu sta lavorando per evitare l’escalation, la quale causerebbe problemi di reputazione internazionali per il governo attuale e anche un quoziente di distrazione rispetto al dossier più importante su cui forze armate, intelligence e diplomazia stanno lavorando, ovvero quello del nucleare iraniano. Tuttavia, vanno ancora tenuti separati due piani di analisi. Da un lato, c’è quello della campagna terroristica, iniziata come detto nel marzo 2022. Ad essa il governo attuale sta rispondendo attraverso il mantenimento della campagna antiterrorismo delle Israel Defense Forces (IDF) lanciata dal precedente governo l’anno scorso, l’operazione Breaking the Wave, che opera in Cisgiordania. A questo primo livello se ne aggiunge tuttavia un secondo, più recente, legato alle tensioni che ciclicamente sorgono nel periodo di Ramadan, il mese più sacro per i fedeli musulmani. In questo secondo piano vanno inseriti gli scontri di Gerusalemme tra polizia israeliana e manifestanti palestinesi, i razzi lanciati dalla striscia di Gaza e, novità che non si registrava dal 2006 con questa intensità, anche dal sud del Libano. Se sul fronte terroristico il PIJ è l’attore più attivo, in questo secondo fronte Hamas gioca da protagonista, tanto da essere persino dietro il lancio di razzi provenienti dal fronte settentrionale, terra notoriamente controllata da Hezbollah. Per evitare l’escalation Israele sta anzitutto centellinando la risposta al lancio di razzi provenienti da Gaza e dal Libano, attraverso la scelta di obiettivi militari secondari nella conduzione di raid aerei di risposta. Ma anche a livello diplomatico, Israele sta trasferendo a Paesi come l’Egitto – che lavora come mediatore tra Israele e organizzazioni palestinesi – un messaggio di distensione.
Qualora la situazione dovesse degenerare, e le mediazioni fallire, non è da escludere un nuovo scenario di guerra aperta, sulla falsariga di quanto accaduto per l’ultima volta nel maggio 2021. Nei fatti, in uno scenario del genere scomparirebbe il confine tra primo e secondo piano. La campagna terroristica verrebbe coordinata con la destabilizzazione prodotta a Gerusalemme e con le azioni militari condotte da Gaza e dal sud del Libano, in un unico conflitto multi-teatro e multidimensionale.
Una delle line rosse che potrebbero essere individuate dal governo israeliano, che se superata porterebbe al lancio di una vasta campagna militare di risposta, potrebbero ad esempio essere il coinvolgimento di Hezbollah nelle operazioni condotte dalLibano, per il momento portate avanti solo da militanti palestinesi. La probabilità di uno scenario conflittuale totale rimane piuttosto elevata sino alla fine del mese di Ramadan, superato il quale tendenzialmente le tensioni tendono a decrescere.
La debolezza del governo di Netanyahu potrebbe essere sfruttata ancora una volta, in futuro, per altri attacchi?
Non vedo un legame di proporzionalità tra la debolezza del governo israeliano attuale e il timing degli attacchi terroristici. Le tempistiche di questi non si legano in maniera diretta alle vicende di politica interna israeliana, almeno non in questa fase. Come detto in precedenza, quella in corso è una campagna terroristica iniziata più di un anno fa, quando in Israele vi era un governo di colore diverso e all’orizzonte non si intravedeva nemmeno l’ombra della riforma della giustizia che tanto ha scosso la piazza israeliana. A ciò va aggiunto che l’unico settore della società israeliana scarsamente interessato al tema della riforma della giustizia e quindi alle sorti dell’attuale maggioranza di governo, è proprio quello arabo, da dove invece provengono alcuni degli attentatori di questi mesi – cittadini arabi con passaporto israeliano. Ciò detto, con grande rammarico è doveroso e realistico prevedere che, con alta probabilità, potremmo assistere ad altri attacchi nel futuro prossimo, proprio per le ragioni descritte in precedenza.
Solo invertendo la direzionalità del rapporto causa-effetto intravedo un legame tra gli attacchi terroristici e le sorti del governo israeliano, quantomeno nella capacità del terrorismo di incidere sui rapporti di forza interni alle forze di maggioranza. Un’ulteriore recrudescenza degli attacchi potrebbe infatti indebolire l’ala moderata del governo a favore delle forze della destra estrema, di matrice nazional-religiosa, impersonificata ad esempio nel ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, leader di Otzma Yehudit. Ben-Gvir è tra gli esponenti del governo che più stanno facendo pressione su Netanyahu per adottare una politica repressiva come soluzione all’instabilità e la violenza in corso. Non escluderei che l’aumento della violenza possa far sì che la posizione assertiva delle frange radicali al governo possa avere la meglio, ponendo fine al tentativo di de-escalation di cui ancora, in questa fase, sembra volersi fare portavoce il primo ministro.