Il regime torna a controllare l’utilizzo del velo da parte delle donne attraverso “sms” di avvertimento al posto della Polizia Morale.
Una notizia risalente a quattro giorni fa quella dei messaggi di avvertimento nei confronti delle donne che decidono di non indossare il velo in macchina, nonostante sia stata resa ufficiale la notizia della sospensione della Polizia Morale da parte del membro della commissione cultura Jalali. Il messaggio recapitato alle donne recita così:
“L’assenza del velo è stata osservata nella vostra auto. È necessario rispettare le norme della società e non ripetere questo atto”.
Un chiaro segnale da parte del regime di Teheran di voler insistere sull’uso del velo da parte delle donne e sul corretto modo di indossarlo inviando avvertimenti alle donne sorprese alla guida senza copricapo. Questa nuova iniziativa da parte del governo iraniano fa parte, in realtà, del cosiddetto programma Nazer – 1 (“sorveglianza” in lingua farsi) già presente nell’intero Paese dal 2020. Il programma prevede un monitoraggio da parte della polizia sull’hijab da parte delle donne in auto che, ultimamente, non lo portavano più per seguire la protesta. Definirlo monitoraggio è un eufemismo data la velata minaccia all’interno del messaggio con la frase “se questa azione si ripete, vi saranno applicate conseguenze legali e giudiziarie”, poi abilmente eliminata.
Dunque, funge da promemoria sia per i proprietari delle auto sia per chi trasgredisce, pena conti bancari delle donne bloccati come annunciato da Hossein Jalali, membro della commissione cultura del parlamento iraniano. Ma non finisce qui, il piano Nazer-1 sarà affiancato da un altro – ancora in fase di studio – chiamato “Efaf (castità) e hijab” che sarà pronto in due settimane. Esso prevederà misure restrittive e punitive più “moderne” contro chi non osserverà in modo corretto la morale del vestiario iraniano.
Il simbolo dell’hijab
Negli ultimi mesi l’hijab è stato uno dei pretesti del regime iraniano di imporsi sulla vita delle donne. Ad oggi abbiamo solo hijab calpestati o addirittura bruciati, indumento primario nel dresscode di una donna islamica e – per disgrazia – al centro dell’attenzione dopo l’uccisione della 22enne Mahsa Amini la cui morte è ancora avvolta dal mistero. Dunque, se prima era un piacere e una vicinanza ad Allah, ora rappresenta una agognata “vendetta” contro i divieti imposti dallo Shah. È il simbolo della rottura interna alla società iraniana, una lotta tra i fedeli ai principi della rivoluzione e chi è stanco delle imposizioni.
Ma quanto ne sappiamo effettivamente sul velo, tanto da poter abbracciare la causa?
Innanzitutto, l’hijab non è il velo islamico ma uno dei tanti che noi occidentali facciamo fatica a differenziare dagli altri, perché molti Paesi hanno bandito l’utilizzo del velo integrale (come ad esempio l’Austria nel 2017, la Danimarca nel 2018, Belgio e Francia nel 2010, e la Bulgaria nel 2016). Gli hijab sono composti da una cuffia che raccoglie i capelli tenendoli stretti e un velo che può essere legato al collo o al mento, oppure lasciato libero sul corpo.
Il significato dell’hijab è “rendere invisibile, nascondere” – come indicato anche nel Corano – indicando la difesa della privacy. Nonostante sia il velo più conosciuto nei paesi europei, ne esistono anche altri: uno dei più noti è il burqa, che ricopre interamente la donna ed è diffuso in particolare in Afghanistan. Poi c’è il niqab, simile al burqa ma che lascia libera una fessura rettangolare per gli occhi ed è tipicamente usato in Arabia Saudita.
Esistono anche altri indumenti, meno noti, da tenere in considerazione: il chador, ovvero tessuti che vengono indossati dalla testa come fossero delle mantelline. Lo jilbab, anch’esso citato nel Corano per riferirsi all’atto di coprirsi, è una tunica presente nel Nord Africa e nella Penisola araba. Lo abaya, ovvero abiti larghi che lasciano scoperti solo volto, mani e piedi, l’al-amiri che è una cuffia molto stretta unita allo scialle da indossare attorno la testa; lo shayla, sciarpa rettangolare da mettere attorno al capo, e il khimar (anch’esso presente nel Corano), velo che ricopre la donna dalla testa fino al girovita.
Nessuno mai ci avrebbe effettivamente pensato ma nell’epoca premoderna l’hijab in Iran era vietato. Infatti, nel 1936 il regime dello scià Reza Pahlavi aveva emanato un decreto (Kashf-e hijab) che vietava alle donne di indossare il velo e agli uomini imponeva di vestirsi con abiti più occidentali. Dunque, il desiderio di vivere come gli occidentali è sempre stato vivo così come in Afghanistan anche in Iran. Addirittura, per far rispettare questa norma molto spesso le donne che indossavano il velo venivano malmenate.
Dopo cinque anni, Reza fu costretto ad abdicare e gli succedette il figlio Mohammad Reza Pahlavi, che tolse il decreto del padre e lasciò piena libertà e autonomia di vestirsi come desideravano. Nonostante questo, le donne che indossavano il velo venivano comunque discriminate e l’effettiva libertà di espressione che si pavoneggiava di aver garantito non c’era: venivano anche escluse dagli incarichi pubblici.
L’Iran, dunque, ha sempre trasmesso nel velo quel potere simbolico politico: prima contro il regime degli scià che voleva a tutti i costi imporre i codici di abbigliamento più moderni ed occidentali, ora per ritornarci. La cosa importante da capire è che le lotte delle donne non è per il velo in sé e per sé, quanto contro il fatto che uno Stato debba decidere come i propri cittadini debbano vestirsi perché si basa sul credo di una religione.
Agli scià subentrarono gli ayatollah con la Rivoluzione Islamica del 1979, all’epoca considerati come un moto rivoluzionario contrario al governo autoritario. Questo diede inizio al rigido regime teocratico che, oggi, viene contestato per la questione dell’hijab obbligatorio a partire dal 1981 nonostante ci fossero state numerose proteste. Questi elementi dovrebbero farci ragionare su un punto chiave: non sono lotte prettamente religiose, bensì politiche e sociali dato che si combatte per la libertà di scelta di indossare l’hijab o meno senza essere discriminate. Prima di Mahsa Amini, ci sono stati dei precedenti storici: nel dicembre 2017 divenne virale sui social la foto di Vida Movahedi mentre sventolava l’hijab in aria come fosse una bandiera. Venne condannata ad un anno di carcere.
Anche gli uomini, oggi come allora, sono soggetti a restrizioni in termini di codice di abbigliamento: non possono indossare in pubblico pantaloncini o magliette con simboli che rimandino alla cultura occidentale. Questo è uno dei motivi per cui anche loro partecipano attualmente alle proteste per strada e che conferma quanto la religione non abbia nulla a che fare con i principi delle proteste iraniane.
La protesta raccontata sui social
Se si vuole far sentire la propria voce, non ci sono altri mezzi più potenti dei social nelle mani di oltre 85 milioni di abitanti per documentare e fare la Storia. Se così non fosse, le autorità del regime non avrebbero bisogno di bloccare – via social e su carta stampata – sistematicamente la diffusione di notizie in merito alle proteste e alle loro conseguenti repressioni.
Ad esempio, sono una quarantina i giornalisti in prigione, tra cui il vicedirettore dell’agenzia di stampa iraniana Fars, vicina alle autorità, perché secondo loro avrebbe falsificato le notizie. Eppure i nostri occhi non hanno bisogno di appigliarsi alla scusa delle fake news…
Non mancano occasioni di diffusione e sostegno per le donne iraniane da parte dei media occidentali. In particolare, la satira del settimanale francese Charlie Hebdo che – in occasione dell’anniversario della strage islamista del 7 gennaio 2015 – pubblica uno speciale a sostegno delle donne, anche se è stato contestato subito dal Ministero degli Esteri iraniano definendole azioni oscene. Ancora una volta il settimanale satirico si ritrova nel bel mezzo di un caso internazionale, solleticando l’ira di Teheran che minaccia una reazione dura nei confronti della Francia, considerando che attualmente ci sono sette francesi detenuti, tra cui Cécile Kohler, insegnante e sindacalista, e il suo compagno Jacques Paris, accusati di spionaggio francese.
Tra i volti noti in carcere ci sono Fahimeh Karimi, allenatrice di pallavolo e madre di tre figli, accusata di essere una delle leader delle manifestazioni di ribellione e di aver sferrato calci ad un paramilitare Basiji, secondo quanto riportato dai media e social autoritari. Alessia Piperno – la travel blogger romana arrestata in Iran e poi liberata – sul suo Instagram (@travel.adventure.freedom) la ricorda così: “Fahimeh è stata la mia compagna di cella per 34 giorni. Un giorno è uscita dalla cella per andare in infermeria, e non è più tornata. Tra di noi non ci sono state grandi conversazioni, dal momento che io non parlavo farsi e lei non parlava inglese. Ma eravamo unite dallo stesso dolore e dalle stesse paure. Ti canto Bella ciao, e tu ti metti a piangere, altre volte mi batti le mani. Vorrei dirti di più, ma che ti dico? Ho cercato il suo nome ogni giorno da quando sono tornata, per controllare se avessero liberato anche lei. Invece mi sono trovata davanti a un articolo con il suo volto con scritto ‘condannata a morte’ Cosa serve per fermare tutto questo?”.