Inchiostro e caffè: “Lettere dal carcere”, la dignità di un recluso

“Il vicino processo mi fa star meglio, perché almeno uscirò da questa monotonia. Non preoccuparti e non spaventarti qualsiasi condanna mi diano.”

Lettere dal carcere è un’opera epistolare postuma di Antonio Gramsci, politico e intellettuale italiano della prima metà del Novecento, che contiene le lettere raccolte durante gli anni della sua prigionia. Questo epistolario ha sedotto intere generazioni con il suo pensiero e con la sua forza della dialettica tanto da oltrepassare i confini ideologici.

La maggioranza delle lettere erano indirizzate ai familiari: alla madre, al fratello Carlo, alle sorelle, alla moglie, alla cognata Tatiana e ai figli. Esse hanno una periodicità che varia tra la settimana e i quindici giorni con numerosi intervalli di silenzio. Possono considerarsi un racconto che si fa man mano sempre più tragico fino al commiato dalla vita che si percepisce nei biglietti inviati nel 1936 ai figli che non ha potuto seguire nella loro prima formazione. 

Le epistole narrano con ritegno la quotidianità all’interno del carcere, l’affetto verso i familiari e gli amici più intimi, ma sono anche un ricco bagaglio di commenti, di disquisizioni e di teorie letterarie e filosofiche. Le sue idee e i suoi studi sono il frutto intellettuale della prigionia: dalle parole di Gramsci traspare il suo amore per la cultura, la sua ricerca di conoscenza, il suo bisogno di sapere. 

Antonio è un uomo solo, condannato dalla dittatura fascista alla reclusione, ma resiste nonostante la sua salute fragile; anzi obbedisce agli ordini di istituzioni dittatoriali che ledono le libertà individuali dei cittadini. Accetta, quindi, assertivamente la sua reclusione, tranquillizzando i familiari e cercando da lontano di educare i figli, rimasti senza padre troppo presto: accetta di essere condannato senza prove, rinuncia agli affetti più cari e cerca di andare avanti, concentrandosi sui suoi studi. 

Nella sua narrazione dei fatti dal carcere e dei suoi sentimenti da recluso, l’intellettuale sardo evita i pietismi, non si scompone, non grida; vuole mantenere la dignità e il ritegno, anche se quello che sta vivendo è ingiusto. Preferisce non spaventare i suoi cari, li consola, cerca di mantenere il legame tra i suoi figli e la famiglia di origine. Gramsci, però, resta un prigioniero. Un uomo abbandonato in attesa di giudizio. Un uomo condannato per le sue idee. 

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