Immigrazione, Lampedusa al collasso: un sistema fallace che risente di problemi di natura geopolitica e politica

A cura di Emanuel Pietrobon e Domenico Ercoli

Lampedusa è al collasso. Il centro di prima accoglienza dell’isola, progettato per ospitare non più di settecento persone, è alle prese con la gestione di quasi settemila persone – dieci volte la capienza massima. Il governo Meloni è in difficoltà: dopo aver ignorato il problema degli sbarchi per mesi e tentato di mediare un accordo con la Tunisia, luogo-chiave di molte partenze – originatesi, però, dal Sahel in giù –, è adesso costretto a fare fronte a un problema che ha radici profonde e che richiede soluzioni creative e multilaterali. Il ministro Matteo Salvini non esagera quando parla di “atto di guerra”, perché a Lampedusa è in corso una guerra: una guerra ibrida. Politica e geopolitica convivono in uno dei periodi più duri per il governo dopo un anno dall’insediamento a Palazzo Chigi.

Quello che sta avvenendo, un ritorno alla crisi migratoria del dopo-Gheddafi – peraltro rimasta irrisolta –, non è che l’assaggio del potenziale, ancora ampiamente inespresso e dormiente, del Sahel controllato in larga parte da proxy della Russia.

Regione a lungo ignorata, pur essendo parte della strategia europea di esternalizzazione delle frontiere, la cintura sahariana è adesso in una situazione difficile da maneggiare: giunte militari rispondenti alla Russia in Burkina Faso, Mali e Niger, insorgenze terroristiche in Ciad, Mauritania e Repubblica centrafricana, ricaduta del Sudan nella guerra civile, wagneriti ovunque. Quello che avrebbe dovuto essere il bordo più esterno dell’Unione Europea, un luogo in cui contrastare le partenze illegali alimentando prosperità e sviluppo per i suoi abitanti, è oggi un’anarcolandia in cui sguazzano gruppi mercenari cinesi, russi e turchi, signori della guerra e terroristi islamisti, che hanno un comune obiettivo: militarizzare i flussi migratori per destabilizzare l’Europa.

Non sarà stringendo accordi con Algeria, Libia e Tunisia, che sono vittime dell’immigrazione illegale parimenti all’Europa, che l’Italia e gli altri paesi europei saranno in grado di superare questa nuova stagione di crisi migratorie pilotate. L’origine del fenomeno è altrove, nel Sahel e dintorni equatoriali, ed è qui che occorre e che occorrerà agire: cooperazione allo sviluppo, creazione di ricchezza, lotta alle disuguaglianze, supporto (vero) alle campagne anticrimine e antiterrorismo e, soprattutto, stop ai neocolonialismi – causa principale dell’indigenza endemica di ampie porzioni del continente e di quel malcontento popolare che è facile trasformare in sostegno a cambi di regime.

Gli accordi con Algeria, Libia e Tunisia sono dei palliativi destinati al fallimento. Gli unici due paesi nei confronti dei quali andrebbero sviluppate delle agende ad hoc, aventi come orizzonte  consolidamento delle istituzioni e pace sociale, sono Libia e Tunisia. Perché il prolungamento dell’agonia magrebina potrebbe condurre alla nascita di un arco di crisi da Niamey a Tunisi.

Lo sviluppo di questa crisi, che va avanti da anni, con periodi più e meno intensi, rappresenta un nodo di centrale importanza per il governo Meloni. In primo luogo, è sbagliato continuare a definire “emergenza” ciò che “emergente” più non è. Si tratta di una situazione condizionata da pressioni politiche provenienti dai Paesi dell’Africa, un continente che ribolle da tempo e che, ultimamente, sta cedendo a plurime pressioni che vengono dai suoi Stati più in difficoltà – come è stato spiegato nella prima parte dell’articolo. Laddove la vita ogni giorno è una guerra col destino, in molti tentano la fuga, affidandosi a scafisti a loro volta al soldo di criminalità locali o, probabilmente, di governi non democratici che sfruttano la povertà estrema.

In un contesto simile, l’Italia è lasciata sola. Sola nel rapporto tra Stati membri dell’UE e, più specificamente, sola da un punto di vista di politica interna. Così il governo di destra, che aveva messo al centro della propria campagna elettorale il tema immigrazione, promettendo porti chiusi e blocco navale, oggi risponde flebilmente al protrarsi degli sbarchi, nonché al collasso dell’isola di Lampedusa, ostaggio da tempo dei fenomeni migratori, con conseguenze pesanti da un punto di vista sociale e di sicurezza. Giorgia Meloni, passata con successo e merito dall’opposizione a Palazzo Chigi, e ormai ben avvezza al ruolo che ricopre, sa bene che le propagande sono state messe da parte. Pertanto è cauta, ben più del suo alleato, Salvini, che dopo aver parlato di “atto di guerra” ha rincarato la dose proponendo un intervento della Marina Militare per fermare gli sbarchi. È evidente la volontà del leader del Carroccio di provare a riacquistare spazio a destra, dopo il calo di consensi e il vaso comunicante che ha portato gran parte dei voti dalla Lega verso Fratelli d’Italia.

Tuttavia, al netto delle strategie, per affrontare opportunamente il tema l’Italia non può essere isolata. Va superato il Trattato di Dublino, bisogna smantellare il sistema per cui lo Stato di primo approdo deve fronteggiare tutte le procedure: sistema di accoglienza, domande d’asilo incluse. E per giunta il Trattato prevede di evitare che vi siano richiedenti asilo “in orbita”, cioè che vengano trasportati in altri Stati membri. La penalità subita dall’Europa meridionale è lampante. Dunque Giorgia Meloni, più che trattare con gli Stati africani (con cui è necessario dialogare, per carità, ma dai quali non si possono pretendere promesse certe nel concreto), dovrebbe alzare la voce in Europa, come peraltro aveva detto più volte in passato. Perché se una delegazione della Commissione Europea è venuta in missione a Lampedusa dopo migliaia di sbarchi in quattro giorni e ha portato solo retorica e discorsi già scritti, forse è il caso che l’Italia faccia voce grossa. In primis con l’Ungheria, che pone il veto su Dublino, nonostante sia amica e alleata della Meloni; e poi anche con le confinanti Francia e Germania, che hanno stoppato gli arrivi dall’Italia nei giorni scorsi. Vane le parole di Anita Hipper, portavoce della Commissione Ue, che ha ricordato come l’Italia abbia il “pieno supporto politico”.

Intanto a Lampedusa si soffre e il sistema è in tilt. Facta non verba. 

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