19 Maggio, 2022 — Sono le 10.00 del mattino e il sole cocente illumina le larghe vetrate del Lingotto Fiere, il famoso centro espositivo della città di Torino che, ogni anno, ospita più di cinquanta eventi (artistici e non), tra convegni, congressi e, sopratutto, fiere; come il Salone del Libro che quest’anno arriva alla sua XXXIV edizione.
Persone di ogni età e professione, già dalle prime ore del mattino, si affrettano verso i cancelli tra un turbine di zaini colorati, borracce e cappellini. Intere classi di liceo, medie ed elementari si spintonano fra un nugolo di schiamazzi e risate che, inaspettatamente, contagiano anche i loro seriosi insegnanti, il registro alla mano e gli occhiali in bilico sulla punta del naso. Le declinazione Latine delle ultime versioni fatte in classe si confondono alle canzoni di Coez cantate a mezza bocca mentre alcune famigliole, nella fila accanto, elencano il numero di eventi a cui hanno deciso di assistere. Due signore in rosa, i capelli canuti e gli occhi azzurri addolciti dall’età, si tengono a braccetto, il bastone una, una macchina fotografica l’altra.
Il Salone del libro di Torino, alla sua prima giornata d’apertura, é come un Luna Park: uno sfavillio di affetti e prime esperienze, di «Cuori selvaggi» insomma, gli stessi che danno il titolo a questa nuova edizione della fiera libresca più famosa d’Italia che, quest’anno, ha deciso di mettere al centro le emozioni umane, l’empatia e l’attivismo.
«Essere qua al Salone é elettrizzante! Io ci vengo tutti gli anni. Penso che tutti dovrebbero provare a fare questa esperienza, almeno una volta nella vita» dice con entusiasmo Margherita, 17 anni, studentessa del Liceo Classico D’Azeglio di Torino, lo stesso luogo nella quale, una volta, ha preso posto tra i banchi il ben noto Cesare Pavese. «Non si tratta solo di libri» continua la ragazza, gesticolando animatamente «Uno non se lo immaginerebbe, eppure, non c’è stato un anno in cui non abbia fatto amicizia con qualcuno qui! Ragazzi, ragazze, librai, giovani editori che stanno iniziando… É un punto di aggregazione, dove si condividono non solo idee ma anche esperienze di vita ed emozioni. E poi quest’anno si parla di cuore! Chi non ha voglia di un po’ d’amore dopo tutti questi, ormai anni, di isolamento forzato?»
Ed è proprio d’amore, infatti, che si parla oggi, quello per i propri amanti, per la propria famiglia, per gli amici ma, sopratutto, per le parole. A testimoniarlo è uno dei primi incontri della giornata, «A volte ritornano. La scrittura è la pittura della voce: Dostoevskij e l’oralità nei Fratelli Karamazov». A condurlo è la traduttrice Claudia Zonghetti — vincitrice del premio Gorky e del Premio Gregor von Rezzori nel 2009, per la migliore traduzione — che, per una sala gremita di persone, ha dato vita con la sua voce all’immortale opera di uno dei padri della letteratura russa, dai lei stessa tradotta per Einaudi.
«I traduttori sono il super io fatto a persona», diceva Derrida; sono i traduttori a rendere possibile l’università dell’opera, arrivando a scorgere, talvolta, cose che nemmeno gli stessi autori riescono a notare. Perché “tradurre è tradire”, è vero, ma anche dipingere, volare sulle parole e dare loro corpo, costringendole a esprimersi in un’altra lingua, facendo in modo che suonino comunque. E anche per questo ci vuole occhio, attenzione per i dettagli, quell’empatia necessaria a comprendere fino in fondo le ragioni dello stile di un autore. «Per tradurre ci vuole talento letterario», prosegue la traduttrice, «ma anche rispetto di un’oralità e di uno stile iniziali che si perdono ma non si perdono». Per anni si è detto, infatti, che Dostoevskij “scriveva male” e ancora oggi, molti critici letterari lo sostengono con fermezza. “La sua scrittura è viscerale, di pancia, febbrile”, dicono, “più attenta all’esplosione che alla logica e al ragionamento”. Niente a che vedere, quindi, con l’universale Tolstoj e la sua “Anna Karenina”. Eppure, al contrario di quanto si creda, non è affatto così. È lo stesso autore a smentire: «Io bisogno di tempo per scrivere, mi servirebbero anni… e invece so che scriverò il mio romanzo in 8-9 mesi, e lo rovinerò». Ma, “I fratelli Karamazov” non li rovina affatto, anzi, sfruttando le ripetizioni ossessive, sia sintetiche che lessicali, egli da vita, non a un ritmo interiore ma un ritmo che fa parte dell’oralità, della pittura della voce; un ritmo che, nella letteratura mondiale, diventerà distintivo della sua poetica, divisa tra agiografia biblica e linguaggio popolare. È nuovo modo di intendere il dialogo comestrumento, per capire gli altri ma anche se stessi, una sorta di calore bianco che, tra armonia e disarmonia, riesce a dare vita a una musica unica; una musica del cuore, sempre spaccato tra bene e male.
Lo stesso dialogo a cui tenta di dare vita il Salone, il quale accogliendo in uno stesso spazio voci, idee, sogni e speranze diverse, cerca di promulgare il vero significato della tolleranza, della libertà e della pace, una pace che può essere ottenuta solo tramite l’empatia, quella capacità innata di calarsi nelle scarpe e nel vissuto altrui per capirlo, accettarlo e magari, imparare ad amarlo.
Una dimostrazione di questo tentativo è la Casa della Pace, uno spazio dedicato all’informazione, all’incontro e confronto sulle iniziative di solidarietà riguardo all’emergenza in Ucraina; insieme al Bosco degli Scrittori di Aboca Edizioni, un piccolo anfiteatro di oltre 1000 alberi, nella quale vengono dibattuti i grandi temi ambientali.