Il 22 maggio, al Salone del libro di Torino, Claudio Metallo ha presentato il suo nuovo romanzo, Kamikaze blues explosion, edito da Coppola Editore. Scrittore, videomaker, documentarista e autore televisivo, Metallo lavora da anni per portare sensibilizzazione su varie tematiche sociali, legate al nostro paese e alle sue attuali problematiche; alcune di queste — seppur il titolo esoterico rimandi a un immaginario lontano dall’Italia odierna — si presentano proprio nel romanzo; di questo “noir impegnato” ci racconta meglio l’autore, tra i pannelli di uno stand del Lingotto. A voce alta, per sovrastare il vociare dei visitatori, dando alla sua testimonianza il tono che merita.
Ci racconti qualcosa del libro?
Kamikaze blues explosion è un romanzo su un bluesman un po’ sciroccato, convinto che, come nel Mississippi schiavista dell’Ottocento è nata una certa musica, il blues, anche nelle campagne italiane possa nascere un nuovo genere musicale, data la condizione critica dei lavoratori sfruttati, paragonabile, in qualche caso, alla schiavitù americana. Arrivando sul luogo, tuttavia, il protagonista scopre che la realtà è completamente diversa, e che c’è ben poco da cantare e suonare.
Il libro tratta temi molto complicati, quali emarginazione, emigrazione, la questione dei porti chiusi e il razzismo politico; ma è anche un noir divertente, scritto in prima persona e denso di “dialoghi a schiaffo”, in cui il personaggio di Peppe Nastro litiga con molte persone, provocando un effetto spesso comico. È lo stesso atteggiamento che poteva avere Marlowe, molto cinico, schietto e diretto. La narrazione è accompagnata da un doppio giallo: la scomparsa di un amico di Peppe e la morte di una ragazza, attribuita a un immigrato irregolare che lavora nei campi e vive nella zona in cui si trasferisce il protagonista.
Sei autore anche di documentari, e la propensione al sociale, all’attualità e alla denuncia è una costante del tuo lavoro; leggendo la bandella del libro, tuttavia, ci si immagina un noir tagliente, divertente, di intrattenimento: quanto hai trasportato la militanza e la carica di denuncia tipiche della tua persona in questo romanzo?
Tanto. L’idea di base del romanzo è proprio quella di parlare di questi argomenti: sfruttamento sul lavoro, migranti, multinazionali che portano alla disonestà anche i piccoli agricoltori. Tutti — persino chi vede nell’immigrato una “bestia che ci frega il lavoro” — dovremmo realizzare che tanta gente che lavora nei campi è italiana. Pochi anni fa, una di queste è morta di crepacuore: era Paola Clemente, e stava vendemmiando.
Io ho origini calabresi, la questione di Rosarno mi è sempre stata a cuore, ancor prima della rivolta. Questi argomenti sono per me centrali, parte della mia persona, non riuscirei proprio a fare a meno di parlarne. Non mi interessa raccontare solo la storia di un bluesman: quello è un pretesto, usato per rendere appetibile il racconto in quel dato contesto sociale, politico, etico o economico. Certo, devo aggiungere che mi diverto moltissimo a dare voce a personaggi come Peppe Nastro.
Da quello che racconti, si percepisce una differenza tra come vivi la scrittura del romanzo e il lavoro documentario; c’è una dimensione in cui ti trovi di più, oppure ti piacciono entrambe, proprio perché diverse?
Nei documentari ho sempre cercato di piegare l’aspetto creativo alle storie che mi venivano raccontate: per esempio, ho girato il documentario Fratelli di Tav, che racconta la mappatura delle costruzioni Tav tra la Val di Susa e Afragola, e uno dei protagonisti è Pietro Mirabelli, un minatore calabrese della galleria del Mugello (la seconda più lunga d’Europa). Prima che uscisse il film, Pietro è morto in una galleria, rendendo quella la sua l’ultima intervista. Oppure penso al primo commerciante di Lamezia Terme che ha denunciato il suo estorsore in tribunale: la prima intervista l’ha fatta con me, per il documentario sul pizzo Un pagamo la tassa sulla paura, perché si è trovato a suo agio. Verso queste persone sento un obbligo, quello di dover sacrificare ogni cosa per la loro testimonianza; la fiducia e i rapporti che si creano, poi, sono forse la parte preferita del mio lavoro. Narrativamente, sul documentario sono sacrificato; non amo lo stile gridato, preferisco mettere in fila i fatti in modo obbiettivo. Se poi la storia è fatta bene, emergerà da sola.
Un periodo ho fatto servizi per Al Jazeera dall’Italia sulle tradizioni italiane; sembra meno emozionante ma mi ha divertito molto, perché ho passato due giorni in uno squero veneziano dove si fanno le gondole; sono luoghi in cui non si ha accesso facile ed è difficile creare confidenza con tali persone, quindi, quando ti fanno entrare e si aprono, la soddisfazione è ancora più grande. Anche solo per fare un servizio da sette minuti.
Con il romanzo posso trattare molti temi in modo più libero. In questo periodo preferisco scrivere, sono più indipendente, è diverso dal documentario. Il lavoro di ricerca, però, vale anche per la scrittura: se sei curioso ti diverti, la tua curiosità è costantemente stimolata dai vari incontri. Più scopri cose e più approfondisci altre tematiche, queste si arricchiscono a vicenda.
Il libro esce ufficialmente il 30 maggio, dunque ti aspetta un intenso periodo promozionale. Altri progetti per il futuro?
Sì, farò sicuramente un tour del libro. Ho anche un altro romanzo già finito e sono sempre al lavoro su varie storie, sebbene al momento non abbia documentari grossi in cantiere, mentre collateralmente continuo a portare avanti il lavoro meno creativo. Mi sto informando sulla storia urbanistica di Napoli e le prime pratiche dei progetti pre-terremoto, ma sono ancora in fase di studio.
Vorrei sempre fare cose che mi piacciono, comunque, e solitamente questo coincide con il creare rapporti e conoscere nuove persone, seppur possa non sembrare un lavoro; mi pare fosse proprio Flaubert a dire “quando guardo dalla finestra, non so come dire a mia moglie che sto lavorando”. Ecco, per le mie abitudini, in questa immagine mi ritrovo molto.