Quando ti viene garantita totale libertà per la stesura di un articolo, solitamente la prima reazione è positiva: “benissimo, posso scrivere quello che voglio e dare spazio solamente alle mie sensazioni”, si pensa. Perlomeno, questo è ciò che ho pensato io.
Vorrei, però, porre l’accento sulla seconda reazione che emerge, quella che cresce gradualmente insinuandosi nella nostra mente e portando alla fatidica domanda, tanto temuta da giornalisti e scrittori: “e adesso cosa scrivo, da dove parto?”
Questo è esattamente ciò che è capitato a me; alla proposta di redigere un pezzo sulla mia esperienza al Salone Internazionale del Libro di Torino, svoltosi qualche giorno fa, ho provato un moto di eccitazione ed euforia, sentendo da subito un certo prurito alle mani, impazienti di mettersi al computer e battere sui tasti parole su parole.
Al momento dei fatti, tuttavia, un interrogativo, un dubbio dilaniante è emerso, ponendomi davanti alla questione: come descrivere il primo Salone del Libro, vissuto da inviata stampa, di una bambina nata e cresciuta in mezzo ai libri, innamorata della cultura, immersa da sempre in un mondo di presentazioni, incontri, domande, curiosità?
Come spiegare, senza annoiare il lettore o scadere nella melensaggine, che quella bambina — figlia di insegnanti, di grandi lettori, di curiosi — aveva sepolto da tanto tempo, ormai, il desiderio di scrivere e fare la giornalista, perché convinta di non essere all’altezza (vista tutta la qualità che la circondava)?
Per quanto una delle mie più grandi preoccupazioni quando scrivo sia proprio quella di non essere troppo autoreferenziale — cosa che sono convinta annoierebbe chiunque — questo articolo vuole trasmettere la mia esperienza al Salone, non tanto per enfatizzare l’importanza della mia persona, quanto per provare a rendere in parole tutto ciò che questo mi ha dato, sperando di poter trovare lettori empatici, felici di condividere il mio recente vissuto.
Inizio dai fatti oggettivi, perché qualcosa di reale e concreto va garantito, anche nell’articolo più personale; il Salone di quest’anno ha fatto il record di presenze, superando di qualche migliaio le 160.000 persone: nonostante il caldo umido di Torino, le sale del Lingotto sono state gremite per l’intera durata della fiera.
L’organizzazione generale mi ha fatto una buona impressione, e trovo sia stata in grado di affrontare l’enorme affluenza senza eccessivi vacillamenti (grande punto a favore se si pensa alla costante carenza di vivande che c’è stata alla fiera di Roma, Più libri più liberi, meraviglioso evento che ha avuto l’unica pecca di sottovalutare la famelicità dei romani).
Dunque, grande affluenza, ottima organizzazione, eccelsa offerta e qualità di eventi, ospiti, presentazioni e stand, vitalità e dinamismo, volti felici e soddisfatti, ingenti acquisti di libri.
Il mio Salone — ma credo di condividere questa esperienza con molti dei partecipanti — è stato talmente potente da non farmi mai sentire la stanchezza sulle gambe, nonostante la media di 10 chilometri al giorno percorsi e i 30 gradi circa, con una percentuale di umidità percepita da far invidia alla foresta amazzonica.
Il mio Salone è stato anche lasciare i miei primi biglietti da visita, immergere le punte dei piedi in quel mare pieno di pesci che è l’editoria e l’industria culturale in genere; mare verso il quale ho sempre sentito il richiamo ma in cui non avevo mai avuto il coraggio di buttarmi.
Il mio Salone è stato quella manciata di secondi dentro la Sala Bianca, mentre prendevo appunti ascoltando Luigi De Magistris, in cui ho capito che il posto in cui mi trovavo, quello che stavo facendo, era esattamente ciò che cercavo da sempre e che volevo veramente fare nella vita; sensazione poi accresciuta ancor di più il giorno seguente, dopo aver posto una domanda ad un celebre autore americano che presentava il suo libro.
Senza scadere nella retorica o nella banalità, ci tengo a sottolineare quanto questa fiera sia stata importante, e non solo per me: i grandi numeri, la partecipazione entusiasta del pubblico (cosa che ho felicemente constatato attraverso l’obbiettivo della mia fedele macchina fotografica), le vendite altissime di libri e non solo, tutto ciò ha dimostrato quanto l’industria culturale, editoriale e libraria non sia in declino, anzi.
Le potenzialità per rafforzarla esistono e, come dimostrano queste occasioni, sono valide ed efficaci; tutto sta, ovviamente, nell’individuarle e sfruttarle al meglio. Tuttavia, se l’impostazione organizzativa di questi eventi rimane su un tale livello, le speranze non sono vane e si può ben sperare in una ricrescita del settore, arrivando ai livelli europei di paesi come l’Inghilterra o la Germania.
Da collaboratrice e socia di una associazione culturale, l’esperienza vissuta durante questo tipo di eventi grazie all’accredito stampa, è ben diversa da quella di giornalisti di testate nazionali importanti; non sei conosciuta, non domini gli spazi riservati ai professionali, piuttosto cerchi il tuo in un angolino, intimidita dai personaggi famosi del mondo culturale e dello spettacolo che si muovono, invece, con agio e scioltezza.
Seppur diversa a livello professionale, la mia esperienza è stata meravigliosa, memorabile e si è espansa ben oltre i confini del Lingotto, incorporando una convivenza di cinque giorni con colleghi e amici, coetanei rapiti dalla stessa adrenalina che ha sconvolto la mia settimana. Condividendo un appartamento e un senso comune di determinazione e passione, quei giorni insieme hanno risvegliato in me un sentimento di appartenenza che non provavo da tanto e, forse, a questi livelli, non avevo mai provato. Una combriccola di giovani esseri umani, ancora non conosciuti o di successo, ma ben inseriti in un mondo che siamo determinati a far nostro, perché ci appartiene da sempre.
Il mio Salone è stato questo ed altro. Accantonando la pretesa di poterlo inserire tutto in poche righe, ho cercato di far emergere i tratti più significativi — per il mondo culturale e per me — nella convinzione che questo sarà solo il primo di tanti articoli sulle future fiere editoriali della mia vita.