Il mio nome è Ayrton Senna, ma tutti mi conoscono come Magic o Il campione. Sono nato a San Paolo, il 21 marzo del 1960, da una famiglia agiata, che benedirò in eterno, perché mi ha permesso di correre, sfrecciare per un’ intensa breve vita. A 13 anni ho cominciato a gareggiare con i kart e nel 1984 sono approdato in Formula 1. Avevo 24 anni e per altri dieci sarei stato il numero uno. Ho vinto il campionato del mondo tre volte, la quarta mi è sfuggita ed è stata fatale. Ho trionfato in anni in cui la F1 era diversa da oggi: ho percorso le curve cittadine di Monaco a velocità da pista mentre con una mano sterzavo e con l’altra cambiavo la marcia, ho vinto a Donington Park sotto una pioggia torrenziale nel 1993 grazie a una delle rimonte più spettacolari della storia, ho afferrato il volante in tempi in cui la tecnologia in gara non esisteva, la sicurezza era pregiudicata e la vita appesa a un filo. Quando arrivarono delle regole che ridussero ulteriormente la sicurezza per le macchine e i piloti, dissi che nessuno ci ha ordinato di correre in Formula 1, ma non siamo pagati per morire. Siamo pagati per restare nella storia, aggiungerei oggi. Mi tenevo aggrappato alla vita tramite la fede, spesso parlavo con Dio e gli confidavo le mie preoccupazioni. Prima di Montecarlo, una volta, lo vidi in pista. La sua visione mi fece comprendere molto del mio passato. La mia capacità di concentrazione era religiosa, non a sproposito. Avevo coscienza del mondo e donavo in beneficenza una buona parte di quello che guadagnavo. Oggi esiste una fondazione col mio nome, che sostiene mezzo milione di bambini.
Si dice che io abbia avuto un rivale storico, fra i tanti piloti con i quali mi confrontavo in ogni occasione: Alain Prost. Non posso negarlo. Ci siamo odiati, in gara. Tuttavia, probabilmente, il fatto che egli fosse un campione metteva in luce ancor più la mia abilità. Ero il campione del campione, in pratica. A un certo punto, mi accusò di ricevere da Honda dei motori più potenti delle altre vetture; ciò spinse la casa giapponese a pubblicare la telemetria delle gare disputate durante l’anno. Emerse non solo che Alain mentiva, ma addirittura che io ottenevo dal motore sempre più giri di quelli che otteneva lui. Suzuka era il nostro campo di battaglia preferito: per qualche anno, in Giappone, all’autodromo il pubblico non vedeva la gara nel suo complesso, ma gli scontri fra me e Alain. Quando entrambi salivamo sul podio, l’uno lanciava sguardi di sfida all’altro, come per dire “la prossima volta sei fuori”. Erano tempi in cui la F1 era sport, prima che business. Perciò, poteva esistere una rivalità autentica fra noi. Lo chiamavano Il professore perché, lo ammetto, aveva molto da insegnare già all’epoca. Vincere contro di lui era una prova di forza che mi riempiva di adrenalina.
Ad ogni modo, tutte le storie mitiche finiscono, prima o poi. La mia è finita prima, forse altresì troppo prima. Sono morto venticinque anni fa, il 1 maggio del 1994, in un maledetto week end ad Imola. Non volevo scendere in pista: il giorno precedente era deceduto un pilota, Ratzenberger, e nessuno avrebbe dovuto correre per rispetto. Al settimo giro sono uscito dal circuito alla curva del Tamburello, perché il piantone dello sterzo ha ceduto. Scoppiò il caos: tutti si riversarono sul tracciato, la gara fu bloccata, vennero i soccorsi ma la via per Bologna fu vana. Alle 18.40 il mio cuore cessò di battere. Un milione di persone mi rese omaggio a San Paolo, in un lungo corteo celebrativo della mia carriera, della mia persona, della mia fama. Il mio corpo è nella terra. La mia anima, però, scende ancora ogni domenica in gara.