In partnership con Lapaginabianca.docx
Ricordo le barre di legno lucido, laccate, della culla che proteggeva il mio sonno. Un enorme orologio da polso stava appeso alla parete di una cucina che non esiste più. Il verde degli sportelli delle credenze si mischiava a quello delle decine di cimici che s’intrufolavano in casa, attaccandosi ai panni stesi in balcone ad asciugare. Una mensola di vetro si rompeva per l’urto della spalla nuda di mia madre, appena uscita dalla doccia, distratta dall’odore di bruciato della cena.
Perché nella memoria permangono certi attimi, certe immagini, piuttosto che altre?
Nello scorso articolo della presente rubrica – Voci che parlano di noi -, si è indagata l’ultima raccolta di Milo De Angelis, Linea intera, linea spezzata, per tentare di rispondere alla domanda sopra posta: attimi significativi dell’infanzia costruiscono un’immagine affettiva interna, che cresce insieme all’identità. Il vissuto, tramutato in ricordo, s’imbeve così di significati che sostanziano il presente e nel presente fanno da guida, come bussole dell’inconscio.
Noi de Lapaginabianca.docx abbiamo raccolto alcune delle nostre voci per dire ciò che della nostra infanzia incide nel nostro presente, dalle immagini dei ricordi ai vuoti creati per difesa.
Le immagini della memoria possono disporsi come note di una canzone unica, letta dal pentagramma del proprio vissuto. Una melodia può essere quindi ascoltata volgendo il proprio pensiero indietro, verso giorni con note e ritmi irripetibili. Silvia Argento racconta così la sua Musica d’infanzia:
Musica d’infanzia
Di tutto questo mondo
non è rimasto più niente
se non un lontano ricordo
chiuso tra le tue braccia.
Come il profumo dei prati
o il rumore di grilli inquietanti
nella campagna dell’infanzia
tanto amata e perduta.
Come gli occhi chiari
lucenti sofferti ma veri
dell’autista ritrovato
solo nella maturità.
Come i percorsi infiniti
delle mattine anticipate
al suono di dolci note
con buche così leggiadre.
Come le emozioni sognate
di un entusiasmo nuovo
con la pienezza del sipario
che faceva banale la vita.
Come l’affetto mancato
del primo amore da avere
che adesso fa troppo male
per ritrovarlo dove tu sei.
Come la scoperta improvvisa
dell’assenza di solitudine
sotto il tuo comando espressa
fra le lentansiose ore.
Ho visto ascoltandoti
almeno mille paesaggi
ho preso abbracciandoti
tutto quello che raccolgo.
Ho amato amandoti
tutto quello che sono.
E la propria canzone, ascoltata dal sé infinite volte, potrà forse, «un giorno», servire a cercare note meno amare, a superare i dissonanti squarci che hanno ferito le orecchie, che hanno spinto a evitare di sentire, per difesa. Ciò si chiede, auspicandoselo, un’altra fra le nostre voci, sussurrando nei respiri, senza darsi né titolo né nome:
Un giorno
avrò il coraggio
di raccontare
di ritornare
di farmi (di nuovo) male
Un giorno
(non) penserò
alle assenze
(ingiustificate)
a prendere sotto gamba
le lacrime
e sul serio i denti
Un giorno
avrò la forza
per chiudere gli occhi
sapermi passato
sgranchire il presente
baciare il terreno
Un giorno
io respiro
Qualcun altro, invece, preferisce ascoltare suoni altrui, per incantarsi con la bellezza dei cambiamenti, delle trasformazioni, del crescere, attendendo che la musica di chi si ama arrivi ad intonarsi alla propria, ne implementi l’armonia, ne incrementi il ritmo. L’attesa della crescita e il fondersi di due anime agli antipodi dell’adolescenza si intrecciano creando il filo che lega le strofe del componimento di Rita Rassu. Ne nasce un’armonia complessa, attraversata da tensioni cariche d’energia, sulla quale è impossibile evitare di ballare:
Danze elettriche
Rovinose,
le estati che cogli in un sospiro;
afflato d’anima dispersa
in un connubio di scarti.
Forse è per quello che vivere
è come morire;
senza morire mai;
senza tempo,
spazio,
andatura…
È solo anarchia;
di gioie e solitudini bianche,
piene le tasche,
di percorsi che si annodano e riavvolgono,
corda tesa:
Decidi tu se camminare,
gli occhi incollati alle nuvole distorte.
Io ti tengo,
le mani,
il cuore
solcando ampi spazi,
attraverso la manchevole follia che cinge
la mente degli angeli.
Non puoi cadere.
Non c’è più vuoto.
Non ci sono più stanze,
né luoghi,
né momenti.
Li ho disciolti come storie,
attraversando il sole per spegnerne i refusi.
Tu impavido ardore
Io ballerina,
dispersa,
in un mare di asterischi.
Lorenzo Salone tende l’orecchio ad accordi più tetri. Note più gravi arrivano a iscurire la vita, quando la voce perde la sua bianchezza fanciulla. Si entra con un primo, timido, timoroso passo nel mondo dei grandi. Varchi si aprono nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza, e la realtà, prima concava, mostra ora il suo rovescio convesso:
Varchi
Mistico, esoterico
pensiero statuario:
Ben svegliato; il sole esiste per te
Il sorriso di chiunque
ti guardi
esiste per te.
Esiste per te il rumore delle stagioni
il freddo, l’ammorbidente
l’abbraccio
rimedio dopo ogni polluzione
il nero sotto le tue unghie e il bianco fra i capelli
Esistiamo per te
Benvenuto
Ti guardi a bocca aperta
mentre la tua pelle fiorisce
di irsuti pascoli bruni
La schiena ti si spezza
il mostro frantuma il tempio
che lo contiene.
E al di fuori del tempio
il sole esiste per qualcun altro
Un tempio in cui eri idolo
e ora sei accolito
e assapori la ruvida aporia,
l’inverno dell’eretico:
il sole esisteva già prima di te
ed esisterà ancora
anche se tu non gli sorridi.
Non esiste musica senza pause. Non esiste valore del suono senza la sua precedente e successiva assenza. Il buio fatto nel sé è la pausa nera che dà ritmo alla memoria. Il rimosso non è però inesistenza del vissuto, ma somiglia piuttosto al silenzio, alla sagoma di un’ombra che dipende da una figura nascosta alla vista. Difesa psichica dell’infanzia, l’annullamento assume l’immagine di una coperta tesa «tra il letto e la scrivania», nella poesia di Anna Illiano:
La capanna
La capanna di coperte e cuscini
tra il letto e la scrivania.
Un’anima di otto primavere
in cerca di un tepore,
un rifugio sicuro e fragile
la capanna di coperte e cuscini.
Un microcosmo insonorizzato
solo suo.
Lontane appaiono le urla domestiche
che squarciano i timpani
di due tenere orecchie.
Cosa accade quando il nulla creato per sé diventa un’abitudine, quando le delusioni affettive dell’infanzia insegnano all’uomo adulto il comando della cecità? L’annullamento diventa una pulsione impossibile da reprimere. La difesa del bimbo si trasforma nella violenza invisibile che, cancellando l’umanità altrui, crea enormi vuoti nella propria. Il componimento con cui questo articolo si chiude dà voce al satiro dell’annullamento. Il sé, traforato dalla difesa divenuta malattia, guarda pietrificato l’origine della voce che gli parla:
Il gioco dei no
Io con la realtà ci
gioco a nascondino
ma senza gli amici
e come un bambino
creo il buio se mi
serve, riempio di no
le barche coi remi.
Basta chiuder gli occhi,
non si diventa scemi
si ritorna marmocchi.
Ricordi la paura
dei santi balocchi?
Mostri dietro le mura
oscure della notte
compivano l’usura,
in silenziose lotte,
di riposi sereni
e le preghiere rotte
dal cuore coi suoi freni
perdevano i sensi
svuotate dei lor beni.
E tu, se ci ripensi,
anche tu ora tenti
di spegnere i sensi,
far bui i tormenti.
Puoi farlo davvero?
So che ora ti penti
di leggermi, è vero:
guardarti nella culla
fa male, ma invero
è la tua vista brulla
che tanto ti spaventa
il vuoto e il nulla
in quel petto magenta
di bimbo ora nato
di vita che fermenta
ma già dimenticato,
solo, a fare i conti
con luce e peccato.