All’interno del nuovo romanzo di Leonardo G. Luccone, Il figlio delle sorelle, edito da Ponte alle Grazie, i tradizionali ruoli famigliari sono liquefatti, messi in discussione nella loro più assoluta incertezza. “È madre? Figlia? Sorella? Nipote?” scriveva Goethe.
Il protagonista, che rimane, per tutto il libro, “il protagonista”, è un uomo animato da un grande mondo interiore, violentato da voci insinuanti, che gli riportano alla mente ricordi passati decostruiti e incerti. Il protagonista è un padre, che, per quindici anni, è stato assente nella vita della figlia, una diciottenne di nome Sabrina che non ha mai accettato il fatto di essere stata abbandonata dal padre. Una volta ricongiunta al padre, Sabrina crea con lui la cosiddetta “stanza delle parole”, un luogo segreto che si ha addosso, in cui sviscerare tutti i perché, rispondere a tutte le domande che assillano Sabrina: perché il padre se n’è andato? Perché ha abbandonato lei e la madre? Ma il padre le voleva bene? Quesiti che condensano, in maniera pregnante, il dolore di una figlia che si è sentita figlia senza un padre, inconsapevole della maniera in cui è venuta al mondo.
Un padre “disintegrato” dalla nascita della figlia, o meglio, dalla soggettazione a una volontà altrui a cui ha risposto con assoluta abnegazione.
Nel tuo romanzo, sono molteplici le voci narranti che riferiscono i fatti secondo il loro punto di vista. Non c’è mai infatti un’univoca prospettiva e la storia non viene raccontata dall’inizio alla fine. Il protagonista stesso dice che: “Molti credono che le storie debbano essere dette dall’inizio alla fine, in bella copia, nel modo più preciso possibile”. Ritieni che la narrazione precisa e dettagliata sia impossibile perché non conciliante con la vita vera dove la verità non è mai afferrabile?
Il protagonista espone una sua versione dei fatti. Quella che però leggiamo è una rappresentazione di questa versione dei fatti: c’è perfino la lista delle persone coinvolte. È il narratore che sta scrivendo oppure l’elenco è un elemento paratestuale? Voglio dire: è il narratore che pilota la rappresentazione (e quindi vuol dire che anche lui scrive le voci), oppure è lo scrittore che scrive del narratore e delle altre voci? Questa è la prima instabilità del romanzo, ed è decisiva perché obbliga il lettore a fare una scelta.
Credo che la prospettiva unica sia facilmente consolatoria e pericolosa. È tipica delle narrazioni mainstream contemporanee pensate direttamente sul percepito gusto del lettore; avverto un certo affanno di scrittori e editor nel chiarire e chiudere le storie. Dico storie ma potrei dire episodi o fotografie già pronte per Instagram. Ormai i libri vengono classificati per temi (o, con insulto alla lingua, per «tematiche») e il racconto del libro da parte dei media si riduce a fare l’orlo al risvolto di copertina.
Molti capitoli del tuo libro sono costruiti in forma dialogica, quasi come se fossero dei dialoghi teatrali molto serrati e concisi. Ti trovi a tuo agio ad affidarti a questa forma di narrazione?
Non so dire perché, ma gran parte delle scene le vedo così, senza scrittura. Sì, mi viene facilissimo. Un critico ha detto che sono «dialoghi levigati». Non credo; al contrario mi sembrano pieni di nonsense e di giri a vuoto.
Nel romanzo, centrale è il tema della liquefazione della famiglia tradizionale, dei canonici compiti genitoriali. La chimera della “maternità” e della “paternità” è andata perduta nel nostro secolo?
Non so rispondere a una domanda così difficile. Dal mio angolo, registro un deterioramento del linguaggio relativo alla famiglia tradizionale. Le metafore si sono sfibrate, le parole sembrano ingobbite. Il figlio delle sorelle è un’analisi di quel linguaggio, partendo dalla fonte: il serbatoio mitico dei rapporti – dico rapporti di ogni tipo – tra le divinità. Non c’è mai più stata tutta quella libertà in termini narrativi, se ci si pensa. Quando ho scritto di Sabrina per la prima volta pensavo a Persefone. Solo che aveva un bicchiere di Moscow Mule in mano.
Mettere in scena una tragedia con i diversi ruoli e con il coro di voci: hai mai pensato a una rappresentazione teatrale del tuo libro?
Mi fa piacere che tu me lo chieda. Sia Il figlio delle sorelle sia La messinscena, un racconto che ho scritto durante la pandemia, sono stati pensati e subito rappresentati nella mia testa. Le sorelle hanno un impianto molto classico, se lo si guarda: tre atti, due o tre personaggi importanti, un coro, l’elemento che spariglia. Come accadeva nel teatro greco i personaggi secondari possono essere interpretati dai primari – anzi serve solo un personaggio.