La scoperta e la conoscenza del nostro corpo, così come la conseguente presa di possesso di questo, sembrano operazioni semplici, del tutto ingenue e congenite alla natura umana ma non lo sono per nulla.
Sono tanti i modi per impadronirsi di una cosa che ci racchiude, ma che, appartenendoci, ci fa paura; tanti gli imput esterni che ci fanno capire che questo, sì, è il nostro corpo, ma ancora maggiori sono le resistenze che tendono a voler annichilire la nostra presenza fisica, a far tacere il rumore dell’essere al mondo.
Per Erica, la protagonista e voce narrante dell’esordio di Veronica Pacini, Il corpo della femmina, edito da Fandango Libri, la scoperta del corpo avviene tramite diverse esperienze: attraverso la violenza di una sorella maggiore, attraverso la mano del bambino-topo che le tocca il petto, e le entra dentro, attraverso la sequela autoritaria di ordini della migliore amica, attraverso la prova degli indumenti intimi della sorella maggiore e il riflettersi in uno specchio.
Questo per quanto riguarda l’esplorazione del corpo durante l’età infantile, nell’adolescenza subentra invece l’autolesionismo, il digiuno, il misticismo, e, non ultimo, il rapporto con la propria sessualità e con l’altro sesso.
Abbiamo incontrato l’autrice, Veronica Pacini, per parlare di corpo, piacere e senso di colpa.
Per la protagonista del libro, così come per tanti di noi esseri umani, il piacere, e il provare piacere, è indissolubilmente legato alla vergogna e alla colpa. Nel contrarre i muscoli e nel sentire piccole scosse che l’attraversano e la penetrano, Erica, da bambina, percepisce una completezza interiore, mai sperimentata, a seguito di cui subentra il senso di colpa. Quando non c’è nessuno – non un genitore, non una maestra, non un’amica – che ci vede nell’atto di, che scruta, dentro i nostri occhi in estasi, il nostro godimento, da dove deriva questa colpa? È una questione cristiana: è il Dio, che è dappertutto e che ci osserva sotto le coperte e le lenzuola, a farci sentire in colpa per aver goduto, per aver preso possesso del nostro corpo? A chi appartiene il corpo, se non a noi stessi?
Credo che la religione abbia un ruolo importante nell’installazione del senso di colpa legato al corpo e al piacere. Nel mio apprendistato religioso, fatto di catechismo, di messe e ore di religione a scuola, la gioia sessuale, il godimento fine solo a se stesso, era visto con sospetto se non direttamente come un peccato; il corpo era considerato uno strumento temporaneo che permette la vita terrena, inferiore rispetto alla vita eterna, qualcosa che comunque è dato da Dio e a lui appartiene. C’era poi l’aspetto della sacralità del corpo: il corpo andava rispettato in quanto tempio dello spirito, e il godimento sessuale non era considerato come una celebrazione di quella sacralità, ma come una minaccia. A questo si sovrappongono aspetti culturali e morali di censura rispetto all’atto gioioso del sesso e al disporre pienamente e liberamente del proprio corpo, molto più duri per le donne che per gli uomini. Tornando però alla religione: ciò che racconto è legato all’educazione religiosa che io ho ricevuto, è un’esperienza individuale, anche se temo sia la più diffusa; esistono però, e questo l’ho scoperto più avanti, da adulta, da atea, altre concezioni della sessualità all’interno del discorso cristiano, per esempio Adriana Zarri è stata una grande teologa che sosteneva che la sessualità è portatrice di valori metafisici e che nel vero mistico la sensualità e la preghiera fanno parte di uno stesso discorso.
Il peccato di aver un corpo, e di prenderne possesso, si può combattere? E come scriverne, farne materia di letteratura, ci aiuta a confrontarci con esso?
Più che combattere si può decostruire. Come ogni concetto culturalmente appreso possiamo prenderne coscienza e modificarlo, non senza sforzo. La letteratura può essere una lente che aiuta a vedere meglio alcune dinamiche, o un microscopio che permette di considerarle nelle sue parti più piccole, di comprenderne le interazioni, di intuire come si è costruito, a partire da questi elementi minuscoli, il tessuto della complessità. Ma le trasformazioni non passano solo attraverso il pensiero: mentre si decostruiscono gli assunti culturali penso sia importante, contemporaneamente, provare a fare esperienza del corpo in modo diverso, considerarlo come una terra da esplorare, tentando di conoscerlo, di scoprirne le potenzialità, i limiti, i desideri.
Erica subisce le violenze – fisiche e verbali – della sorella maggiore. Nonostante queste sevizie, Erica non è capace di sopprimere il suo desiderio di non perdere la sorella. Come si può proteggere chi ci fa del male?
Erica è una bambina molto piccola quando inizia a subire violenza, la crede parte normale del rapporto di sorellanza, non capisce che potrebbe, anzi, che dovrebbe non essere così. Però sì, anche in lei è presente la volontà di proteggere chi le fa del male. Nel suo caso succede perché Erica ha la tendenza a dare agli altri ciò di cui hanno bisogno e nel caso di sua sorella, almeno così lei crede di capire, il bisogno è usare la violenza per alleviare un dolore più grande che né a Erica né al lettore è dato vedere.
Erica ritiene legittimo che l’altra la tormenti per il solo fatto di esistere? E qual è la colpa di esistere? È questo il comportamento dei martiri? Amare chi ci fa del male, chi ci uccide?
Il martirio, cioè l’accettazione della violenza in nome di Dio e l’elevazione che ne conseguono, mi sembra contenere questo aspetto di amore verso il carnefice. Anche nel Vangelo Gesù parla dell’amare i propri nemici, è uno degli apici del suo insegnamento. In qualche modo mi sembra che il ruolo del carnefice sia fondamentale in una dinamica in cui la vittima accede all’esperienza del divino, proprio per il fatto di essere vittima. Ma è un ragionamento che farei solo all’interno della sfera religiosa: fuori di essa credo che intervengano dinamiche molto più complesse ed è pericoloso estendere una cosa tanto particolare quanto il martirio ad altre forme di violenza, ad altri rapporti vittima-carnefice. Per quanto riguarda Erica, la sua esistenza diventa una colpa nel momento in cui manda in frantumi l’esistenza di un’altra persona, sua sorella, ed essendo Erica una bambina tendenzialmente passiva, che tende cioè a mettere davanti ai propri i bisogni degli altri, accetta il sentimento della sorella come una verità universale, che vale anche per lei, e non relativa all’esperienza individuale.
A un certo punto, Erica scopre l’autolesionismo, il farsi male e l’infliggersi un dolore – offendere il proprio corpo, offendere la vita –, non solo quando un pensiero maligno corrompe la purezza del suo cuore, ma quando ha bisogno di provare il piacere che non riesce a trarre da nulla che sia vita. Non c’è solo il desiderio di sentire il piacere della distruzione, ma anche quello di comunicare qualcosa che a voce non si riesce a trasmettere: i rivoli di sangue che scorrono sulla superficie della pelle come testimonianza del proprio dolore; e come i rivoli di sangue, così non esplicitamente, ma nella stessa maniera violenta, il non mangiare, il camminare fino a sfinirsi, il diventare aria nel regno dell’aria. È il corpo che parla, nel momento in cui non si hanno le parole per comunicare il proprio dolore interiore. Solo che, spesso, non si sa nemmeno ciò che si vuole dire, ciò che non si riesce a dire. Erica lo sa?
Io credo che nessun dolore si lasci decifrare fino in fondo. Possiamo intuire le cause, possiamo cercare di rintracciarne i motori in eventi traumatici del passato o del presente, ma come ogni sentimento forte della nostra interiorità non possiamo osservare il dolore completamente, in ogni sua parte, comprenderlo appieno. Possiamo vederlo da una certa distanza, in modo liminale, obliquo. È certamente utile indagarlo con le parole, ma forse, dicendolo, in qualche modo lo trasformiamo. Leggendo il libro è possibile scorgere molti motivi del dolore di Erica, anzi il libro è quasi una storia del dolore, ma pur essendo lei, e noi lettori con lei, consapevoli delle violenze subite, della sua sensibilità acutissima, della sua tendenza a percepire l’amore come una forza soffocante, della sua volontà di plasmare se stessa sui bisogni degli altri, ecco nonostante Erica e noi sappiamo tutte queste informazioni, quel dolore ci sembra contenere un punto di irrisolvibilità, di indicibilità.
Nell’Erica quindicenne, c’è come una volontà di sfidare ogni sacrificio fino al sacrificio per antonomasia. Cosa c’è dietro il suo desiderio di fare “altrettanto e meglio” di Cristo?
Erica è quella che oggi definiremmo una brava bambina, cioè una persona educata a cercare perfettamente una corrispondenza tra sé e le richieste degli altri, ubbidiente, docile. Erica cerca di recitare i ruoli che gli vengono richiesti sempre alla perfezione. Anche nel suo essere una creatura spirituale ricerca quella perfezione, e la perfezione, in quel caso, è l’imitazione di Cristo, la fusione con Cristo.
Nel novembre 1985, Rudolph M. Beh (1942), professore di Storia nella Rurgers University, pubblica: La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal Medioevo a oggi, mettendo in luce le impressionanti analogie tra la moderna anoressia nervosa e il percorso alla santità di tante figure d’eccezione – da Chiara d’Assisi a Caterina da Siena, da Francesca Romana a Veronica Giuliani. Ecco, la figura di Erica sembra rientrare proprio in questo ampio bacino: la sua formula rituale è “Vergine e martire”, e nel digiuno e nello sfinimento fisico, ella individua l’unico modo per arrivare a Cristo, e diventare moglie di Cristo. Come si colloca, al giorno d’oggi, la santità? Chi può aspirare alla santità nel XXI secolo?
Non so dire in termini universali cosa possa essere la santità oggi e chi possa aspirare a incarnarla. A me piacerebbe che il concetto di santità fosse legato all’equilibrio tra le parti che compongono la vastità del sé, integrando anche gli aspetti materiali, fisici, sessuali. Al di là di questa risposta molto personale, la tua domanda mi stimola però una riflessione su cui mi arrovello da un po’: la tendenza tutta attuale a classificare le differenze cognitive e psichiche e a incasellarle dentro categorie che vengono viste come devianti e, in quanto tali, trattate attraverso terapie di parola o farmacologiche per rientrare dentro quella che chiamiamo normalità, non staranno appiattendo lo spettro umano, le potenzialità connesse al fatto di essere umani? Non sto rifiutando la psicologia e la psichiatria in toto, ovviamente, di certo ci sono situazioni in cui sono di aiuto o addirittura fondamentali per la vita delle persone. Ma mi domando se questo concetto di normalità non stia diventando troppo sottile, e mi chiedo anche quante personalità importanti della nostra storia universale – religiose, intellettuali, artistiche, storiche – se fossero esistite oggi, non sarebbero trattate farmacologicamente per contenere quegli aspetti di esuberanza o di visione particolare del mondo che hanno donato all’umanità saggezza, teorie, intuizioni, opere che hanno ampliato la nostra conoscenza dell’uomo e della vita.