Il Cinema in Piazza: intervista a Valerio Carocci

Se la teoria ci insegna che sono le prime righe di un articolo a dover attrarre l’attenzione dei lettori, nella pratica, questo risulta estremamente complesso; è un topos letterario, infatti, quello del terrore dell’incipit, caratterizzato da poche parole ma  cariche di enormi responsabilità.

A questo proposito, mi viene in mente l’incipit di Firmino di Savage: “Avevo sempre immaginato che la storia della mia vita, se un giorno l’avessi mai scritta, sarebbe cominciata con un capoverso memorabile”.

Questa breve introduzione, che spero abbia sortito l’effetto di catturare l’attenzione, ha anche e soprattutto lo scopo di sottolineare quanto possa essere difficile parlare di un’iniziativa come quella del Cinema in Piazza, organizzata dall’Associazione Piccolo America.

Difficile, non solo perché le belle parole sono già state spese negli anni e il progetto e la sua storia sono ormai noti ai più, ma anche perché, dopo due anni di pandemia, parlare di iniziative getta sempre nel timore che le ripartenze siano solo momentanee. Tuttavia, se c’è una cosa che i ragazzi ci hanno insegnato in questi anni è che, proprio dalle difficoltà, si può tornare più forti. 

A Roma, infatti, il collettivo di giovani del Piccolo America – nato nel 2012 in seguito all’occupazione della nota sala trasteverina Cinema America – vanta di una grande popolarità e un forte successo di pubblico, tant’è che è facile camminare per le vie del centro e trovare i ragazzi, con le loro tipiche magliette bordeaux (tratto distintivo che più volte ha provocato aggressioni di stampo neofascista). 

Dai vari tentativi di affossamento, i ragazzi, sotto la guida del presidente Valerio Carocci, hanno tirato fuori una determinazione e una risolutezza tipiche dei giovani, e di chi, soprattutto,  agisce per passione.

Questa si evince dalla loro storia, ed è la costante di ogni iniziativa dell’Associazione fin dalla sua nascita: non si realizzano Il Cinema in piazza e il Cinema Troisi senza una qualche forza, interiore e condivisa, che ti trascini anche solo per inerzia, non permettendoti di lasciarti scoraggiare o abbandonare il progetto alla prima difficoltà. È proprio da questa forza che ho deciso di far iniziare l’intervista, con la prima, spinosa domanda a Valerio.

A livello emotivo, quanto è cambiata la vostra spinta, la carica rivoluzionaria, dall’occupazione improvvisata, estemporanea, rispetto ad un presente fatto di burocrazia, accordi e contratti? Sarete sicuramente soddisfatti dei risultati, eppure, c’è qualcosa che rimpiangi di quelle dinamiche?

Non è una domanda semplice. Direi che non è venuta meno la spontaneità iniziale. Quando prendiamo una decisione, paradossalmente, lo facciamo con la stessa spontaneità dell’inizio. L’unica differenza è che le decisioni di oggi, nella pratica, hanno più passaggi.

Dal punto di vista dell’approccio istintivo alle cose, siamo rimasti molto simili ma, certamente, il terreno istituzionale su cui ci muoviamo è diverso rispetto a dieci anni fa: la battaglia che ieri era per l’occupazione, per esempio, oggi diventa un esposto all’antitrust contro l’ANICA e, dunque, tutta la discussione sulla distribuzione dei film che ha richiesto tre anni di lavoro. Dal punto di vista della spinta emotiva, invece, questa è sicuramente cambiata, perché dieci anni pesano; spesso mi rendo conto che siamo stati veramente fortunati a mantenere un gruppo molto solido rispetto ad una idea di base, da solo non ce l’avrei fatta.

Per quanto riguarda il Cinema in piazza, nelle varie edizioni sono passate personalità importanti del mondo del cinema e non solo; che cambiamento hai notato negli anni, anche per quanto riguarda la risposta del pubblico? Ti pare che sia il successo dell’iniziativa a far aderire tanti personaggi di spettacolo, o più l’idea di fondo, la passione e la rivalutazione del territorio? Al di là degli italiani, e dei romani soprattutto, gli ospiti internazionali come si rapportano a questo stretto legame tra il Cinema America e il quartiere di Trastevere?

In realtà è diffuso anche in altri territori, non so se ci sia un legame in particolare con Trastevere. Lo spartiacque è stato sicuramente quello delle tre arene, le quali  hanno diffuso l’evento anche in periferia, cosa che ha portato molte più persone a partecipare agli eventi, essendoci presidi nei loro territori: il coinvolgimento della città è stato più trasversale e quindi, sicuramente un cambio in positivo.

Inoltre, abbiamo raffinato la programmazione sulla parte più cinefila del festival (per esempio con le retrospettive su Agnès Varda e Pawlikowski), che si aggiunge a quella di intrattenimento e a quella per bambini e questo ha portato pubblici diversi. Otto anni fa, non avremmo mai potuto fare tutto ciò e invitare certi personaggi. La crescita cinefila del pubblico è stata esponenziale, rispondendo bene anche al Troisi che, in Italia, in questo momento è una sala campione di incassi.

Per quanto riguarda gli ospiti, ciò che li fa aderire è un misto di motivazioni di cui teniamo conto quando li invitiamo; qualcuno tiene più alla promozione della sua filmografia e del cinema (e quindi fa presa sul gruppo di ragazzi e sul festival), altri invece sono più politicizzati e attenti alle dinamiche sociali. Dipende tanto da come poni l’invito e da come ti presenti, l’esperienza ha più sfaccettature.

Il cinema Troisi è un successo ed è un’impresa notevole, prima in Italia; credi sia veramente applicabile su larga scala o può restare solo una bellissima eccezione? E se si espande, hai paura che perda il suo iniziale valore?

Dall’anno zero, abbiamo sempre creduto che i progetti dovessero nascere dal territorio; per questo l’occupazione e le nostre iniziative le sentiamo legate più alla città che a Trastevere, che è stato scelto perché era il luogo in cui uscivamo noi, tutti ragazzi di periferia non trasteverini. Crediamo che esperienze del genere debbano nascere dal basso, non per forza fuori dalle istituzioni ma sicuramente dal territorio.  Anche se i progetti verranno esportati, non saranno mai come quelli che nascono dall’esigenza territoriale. Non possiamo sapere cosa serva a Milano o a qualunque altro paese della provincia, quindi, non crediamo che esportare un modello e un progetto abbia senso.

Sarebbe bello se qualche scuola insegnasse davvero a organizzare eventi, il problema è che in ogni città cambiano le regole e, a livello burocratico, è complesso. Noi cerchiamo, quando possibile, di dare gli strumenti burocratici, giuridici e amministrativi, per salvare i cinema e\o organizzare eventi all’aperto, scontrandoci col fatto che è un po’ come insegnare una professione. Noi stessi non abbiamo certo imparato in un giorno, sono serviti vari anni, e stiamo migliorati molto (il primo anno, infatti, è stato molto complesso.)

Il fatto è che bisogna imparare sul campo. Eppure, se c’è la spinta, si può sicuramente riuscire; per esempio, due realtà con grandi potenzialità sono Guarimba International Film Festival, in Calabria, nata da una vecchia arena abbandonata, e i ragazzi del Giambellino di Milano, che abbiamo sostenuto nella loro battaglia per ottenere i film.

Mi sembra che sia intrinseca nell’anima dell’associazione una vocazione all’azione spontanea, diretta, come un lasciarsi trasportare da ciò che sembra giusto in quel momento (proprio a partire dall’episodio che ha dato la nascita a tutto ciò). Più che chiederti dei progetti per il futuro, vorrei sapere le idee che avete in mente adesso, da realizzare o anche solo da discutere. Cosa vi piacerebbe fare oltre a ciò che avete già fatto, e cosa c’è al momento in programma?

Il festival estivo è gratuito. In quanto servizio, si regge sul sostegno degli enti pubblici e continuerà ad esistere finché godrà di questo e del sostegno degli enti privati: quando non si potrà più fare, per condizioni economiche che prescindono da noi, non potremo farci niente.

Possiamo migliorare sulla programmazione degli ospiti ma le aree resteranno quasi sicuramente tre: San Cosimato, Monte Ciocci e Cervelletta, le quali, al momento, sono abbastanza equilibrate. Poi è il primo anno senza il Covid, quindi, vediamo come va.

La nostra associazione nasce per salvaguardare la destinazione d’uso delle sale, a partire dall’occupazione del Cinema America che, infatti, rimane l’obiettivo a breve/medio termine: abbiamo l’udienza a ottobre 2022 e speriamo nella sentenza a fine anno. A quel punto, se vinciamo, capiremo se è possibile trovare un punto di incontro con la proprietà; nel caso perdessimo, invece, dopo dieci anni di battaglia legale dobbiamo anche capire fin dove si può arrivare.

In questi anni, comunque, abbiamo cercato di scollegare il Cinema Troisi dal cinema America, rendendolo un’esperienza indipendente, in modo da preservarlo anche nel caso che, con il secondo, non fosse andata bene come speravamo. 

Oltre all’America – che resta il primo obiettivo – l’idea è quella di realizzare un multisala diffuso a Trastevere, ovvero una sorta di multiplex a cielo aperto, immerso nei vicoli. La cassa non sarà all’interno di un centro commerciale, bensì in edicole vicino a Ponte Sisto, Ponte Garibaldi o Porta Portese: da lì si entrerà nel rione multisala che, invece di avere la moquette, avrà per corridoi i vicoli stessi e il cielo aperto, i quali porteranno alle sale dei vari Cinema: L’America, il Troisi, il Pasquino, il Reale e altri.

Essendo una associazione non profit, continuiamo a mettere da parte per finanziare questo progetto che è trasteverino solo come territorio di intervento, non come bacino d’utenza. Vogliamo rimanere fedeli all’idea di “Trastevere rione del cinema” (primo nome dell’arena di San Cosimato), come un quartiere che accoglie dentro di sé tantissimo della città, anche con iniziative estive analoghe come il cinema Sacher o l’Isola del Cinema. Prima erano aperte addirittura otto o nove sale, secondo noi è ancora possibile replicare questo sistema.

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