Venerdì 10 maggio, verso la fine della seconda giornata di un soleggiato Salone del Libro di Torino, si è svolto il quarto e ultimo incontro di “Ho perso il Novecento. Oggetti da un secolo smarrito”. Ideato da Nicola Attadio in collaborazione con Fondazione circolo dei lettori e storielibere.fm, il progetto itinerante ha visto alla conduzione Loredana Lipperini e Paolo Di Paolo, che in ciascuna puntata hanno dialogato con ospiti ogni volta diversi: Guido Catalano, Filippo Solibello, Mario Calabresi e, nella cornice del Salone, Marino Sinibaldi.
L’intento del progetto non è certo di chiudersi in retoriche nostalgiche, ma piuttosto quello di voler raccontare alle nuove generazioni un passato che, seppur difficile a credersi, non è così diverso da oggi, e vive ancora nel presente dentro oggetti, atteggiamenti, pensieri.
Circondati da tonnellate di libri, non si può che partire dalla carta. Paolo Di Paolo evoca subito un’immagine – forse un po’ triste, dice, ma efficace: quella dei traslocatori postumi. Gli addetti allo svuotamento delle case dei defunti, infatti, nella maggior parte dei casi si trovano davanti ad abitazioni traboccanti di fogli, foglietti, libri, elenchi, lettere. Lo spazio che la carta occupa è uno spazio scontato, che deve esserci, e nel caso non ci fosse bisognerebbe trovarlo.
Ecco che Loredana Lipperini lancia il primo oggetto del giorno: la cartolina.
Non troppo amate da Marino Sinibaldi, che ci tiene a distinguere la nostalgia – dannosa e non progressista – dalla nostalgia per cose specifiche di cui rivendicare la mancanza, le cartoline sono tuttavia state un fenomeno collettivo di enorme portata nel Novecento. Lipperini ricorda infatti la definizione di “rivoluzione silenziosa”, che indica il momento in cui in vacanza si smettono di scrivere lettere per descrivere il paesaggio, rappresentato ben più degnamente proprio dalla cartolina. Un nuovo tipo di comunicazione visiva prende piede e spedire la cartolina diventa imprescindibile per tantissimi italiani.
Un sistema più “genuino” di comunicare, potrebbe pensare qualcuno. Ma è innegabile che ci siano cose che la tecnologia supera, come osserva Sinibaldi. Secondo lui, l’uomo ha rivoluzionato l’intera comunicazione, tanto che la storia di questa potrebbe dirsi finita (con le dovute accortezze). Ciò che intende, è che quello di oggi è il modo più veloce e utile di comunicare; la storia della comunicazione finisce con la rete, che porta istantaneità e gratuità, realizzando quindi il sogno dell’uomo moderno.
E dunque consideriamo Il cinque maggio un “editoriale in versi”, come dice Di Paolo, per la velocità con cui il Manzoni compose l’opera, preoccupato di diffondere la notizia della morte di Napoleone. Ma se lo scrittore apprese i fatti circa due mesi dopo la loro avvenuta, oggi è quasi inevitabile scoprire ciò che succede mentre succede. La simultaneità arriva nel 1924, con l’invenzione della radio.
Certo, ricorda Sinibaldi, ci sono anche tecnologie che non vengono utilizzate. Un esempio? Le telefonate in radio. Sebbene fosse possibile chiamare già da alcuni anni, il primo programma radiofonico che decide di mandare in onda le parole degli ascoltatori è del 1968. Prima, molto semplicemente, la gente non aveva voglia di esprimere i propri pensieri.
Ecco quindi che l’assunto fondamentale della tecnologia diviene non tanto quello di essere sempre al massimo qualitativamente, quanto piuttosto di saper intercettare i cittadini, gli utenti, le comunità.
E con questo gancio, il dibattito arriva all’ultimo oggetto della serata: i giornali di partito.
Anche qui, evidenziano subito i relatori, c’è stata una grande capacità di intercettare la comunità, che poi però si è persa. Complice in primo luogo la scomparsa degli stessi partiti, e la trasformazione dei quotidiani nazionali in pseudo-partiti, in grado di creare autonomamente la propria visione del mondo.
Alla fine, quindi, anche le cartoline, le lettere personali dei militanti di “Lotta Continua” alla redazione del giornale, le riunioni alle sezioni di partito e le chiacchiere qualunquiste da bar rientrano in una dimensione di socialità analogica non troppo diversa da quella di oggi online. Ma non solo. Come fa notare Di Paolo, anche lo stesso Salone del Libro diventa uno strano e grande social, un ritrovo per appassionati che possono così condividere e dibattere in libertà; e questo, forse, è un indicatore del fatto che il bisogno di luoghi fisici di aggregazione resiste alle angherie dei tempi.