Giovanni Falcone: l’individualità per l’interesse collettivo

In partnership con Spazio Possibile – Psicologia

A cura di Elisa Fagiolo e Marco Scandamarro 

Trent’anni fa, il 23 maggio 1992, a Capaci sull’Isola delle Femmine moriva il magistrato Giovanni Falcone a causa di un attentato. Con lui persero la vita Francesca Morvillo, magistrato e moglie di Falcone, e i tre agenti della scorta; Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. 

A distanza di tanti anni le parole di Falcone risuonano, purtroppo, ancora atrocemente attuali: “Cosa nostra non sbaglia un omicidio.”

Vi sono alcune peculiarità che caratterizzano il pensiero criminale di stampo mafioso. Alcuni studiosi si sono ampiamente occupati di indagare il pensiero sottostante alle organizzazioni criminali come la mafia, delineandone gli aspetti salienti: “La cultura mafiosa ha sempre avuto la capacità di nascondersi, mimetizzarsi all’interno delle realtà civili ed istituzionali nelle quali si è trovata ad operare, determinando una cortina di silenzio ufficiale che la rendesse invisibile”. Negli studi l’attenzione è posta sulla cultura o il pensiero di tipo mafioso come “una modalità distorta di vivere la propria identità ed i rapporti con il sociale” (Fiore, 1997; Lo Verso, 1998).

Dagli studi emerge che il pensiero mafioso sottostà al senso di appartenenza ad un gruppo fortemente coeso. Questo è giustificato dal fatto che farne parte comporta fenomeni quali: conformismo “normativo”, obbedienza alle figure autoritarie ed identificazione dei ruoli. Difatti, l’Io individuale coincide con il Noi, che è connesso all’onore. A tal proposito, il prof. Lo Verso afferma che: “nessun mafioso si definirà mai come un criminale, ma sempre come uomo d’onore”.

Dunque, a delinearsi, è lo psichismo mafioso, ovvero l’insieme delle modalità messe in atto per costruire legami criminali fondati su un codice valoriale, che ha l’obiettivo di preservare l’identità di gruppo piuttosto che favorire la realizzazione dell’individuo.

Da queste premesse, il lavoro del giudice Falcone ha messo in crisi il “comune sentire” di quegli anni, rappresentato dal credere il fenomeno, le sue logiche e modalità di strutturazione, inestirpabile e non indagabile.

Ciò è stato possibile attraverso la sua volontà e capacità di ascoltare diversamente i pentiti come Buscetta e Vitale. Furono proprio le confessioni di Buscetta che gli permisero di comprendere la mafia.

Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa nostra. Ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare a gesti”.

La sua attività di indagine rappresentò un’enorme minaccia alla coesione interna dell’organizzazione, che per la prima volta assisteva alla messa in discussione dei legami a seguito di uno svelamento dei meccanismi sottostanti. 

Dopo la sua morte, con gli arresti, molti affiliati a Cosa nostra scelsero di collaborare con la giustizia. Le molteplici narrazioni riportate dai pentiti, che fino a prima erano inesplorate, indecifrabili e impenetrabili, misero in crisi la sua struttura rigida.

In tal modo, l’idea che lo Stato possa sconfiggere Cosa nostra divenne una paura concreta per la mafia. Chi ne faceva parte ebbe il timore di essere in un gruppo le cui regole e sicurezze iniziarono a vacillare perché potevano essere messe in discussione

Giovanni Falcone ci ha lasciato in eredità la possibilità di rendere pensabile il fenomeno mafioso comprendendolo al suo interno. La determinazione di analizzare da vicino le relazioni su cui si fonda la mafia ha permesso di restituire voce all’individualità per l’interesse collettivo. 

Possiamo continuare a credere che

“La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà una fine”.

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