“Geopandemia”, Salvatore Santangelo e la sfida geopolitica del Covid-19

Il Covid-19 ha mutato gli equilibri globali, si è introdotto prepotentemente nello scenario geopolitico. Economia, innovazione, digitalizzazione, posizionamento strategico tra gli Stati; tutto è in fase di cambiamento, assai rapido.

Salvatore Santangelo, professore, saggista, giornalista professionista, autore di “GeRussia” e “Babel” ha pubblicato recentemente “Geopandemia” (Castelvecchi), nel quale offre una chiave di lettura per i tempi correnti.

Professor Salvatore Santangelo, il sottotitolo del libro è piuttosto interessante: decifrare e rappresentare il caos. È opportuno, cioè, capire il caos attraverso una spiegazione del disordine dei tempi e una conseguente chiave di lettura?

Come ha affermato il matematico Ian Malcolm: «Non concepiamo il cambiamento improvviso, radicale, irrazionale come qualcosa che appartiene al tessuto stesso della nostra vita. E invece lo è. E la Teoria del Caos ci insegna che la linearità, che noi diamo per scontata, semplicemente non esiste. La linearità è un modo artificiale di vedere il mondo. La vita vera non è un insieme di eventi legati tra di loro che si verificano uno dopo l’altro come perline di una collana».

In relazione alla Pandemia e alle risposte da mettere in atto, questo approccio risulta particolarmente interessante perché ci permette di trovare un nesso tra una visione deterministica della natura che è quindi possibile descrivere con le leggi della fisica e interpretare attraverso le inferenze statistiche, con il libero arbitrio e la responsabilità individuale.

Anzi, la stessa Teoria del Caos diviene la matrice del libero arbitrio, poiché facendo riferimento alla famosa metafora del battito delle ali di una farfalla in grado di scatenare un uragano, ogni nostra azione, anche la più insignificante, può teoricamente condizionare il futuro sviluppo dell’Umanità. Inoltre, la Teoria del Caos acquista tutta la sua capacità esplicativa se affiancata alla Teoria delle Catastrofi e questo perché, mentre la fisica classica newtoniana tratta solo processi continui, questo approccio sembra offrire un metodo universale per lo studio di tutte le transizioni brusche, delle discontinuità e degli improvvisi mutamenti qualitativi e questo perché – come ha afferma Renè Thom – essa non sarebbe una semplice «teoria matematica, ma piuttosto un corpo di idee, oserei dire uno stato della mente».

Uno stato della mente che ha molto a che fare con quella dimensione che magistralmente ha descritto Ernst Jünger: «La condizione in cui ci troviamo ci obbliga a fare i conti con la catastrofe e a coricarci al suo fianco, perché essa non ci sorprenda durante il sonno. Possiamo così accumulare una dose di sicurezza che poi ci permette di agire con razionalità».

Nel volume si afferma che: «Ci muoviamo in un territorio inesplorato, ma tutti abbiamo la percezione, più o meno chiara, che il Covid-19 è il cigno nero che metterà all’angolo quella che Ulrich Beck ha definito la società del rischio». Se ciò accadesse, quali risvolti sociali e politici si avrebbero?

Come sappiamo, la metafora del Cigno nero è stata utilizzata e mediatizzata da Nassim Nicholas Taleb per descrivere qualcosa d’inaspettato in grado di far deragliare il corso degli eventi, come la Grande crisi del 2008/2009.

Taleb – in realtà – non ritiene che possa essere correttamente applicata alla pandemia da Sars-Covid-19 e questo perché una pandemia e le modalità per affrontarla dovrebbero essere incluse in un qualsiasi piano di protezione civile ben congeniato. Sulla stessa lunghezza d’onda Ivan Krasten che, per descrivere il nostro contesto, arriva a parlare di Cigno grigio.

Dal mio punto di vista, il Sars-Covid-19 è un Cigno nero quando le sue implicazioni sono appunto geopandemiche, e quindi globali, sistemiche, pervasive. Questo nuovo paradigma ci porta a fare i conti con l’oracolare affermazione di Primo Levi: «il futuro ha un cuore antico»; per affrontare le nuove sfide dobbiamo attingere alla saggezze degli antichi, nel cui orizzonte esistenziale erano sempre presenti guerre, pestilenze e carestie. Quindi, il futuro possibile non può che essere intravisto in un passato che – parafrasando Robert Kaplan – è «visibile e davanti a noi».

Il dominio tecnologico e scientifico, allora, diventa una sfida sempre più presente e da aggiudicarsi obbligatoriamente? La corsa al vaccino, per esempio, è forse la gara più importante del secolo…

La competizione tra le potenze si misura, e si misurerà sempre più, sulla qualità del capitale umano: in questo senso la sfida è sulle biotecnologie, sui calcolatori quantistici, sull’intelligenza artificiale e sulla capacità di collezionare e analizzare dosi sempre più massicce di dati. La scoperta del vaccino sarà il punto di snodo di tutto questo; non vincerà solo chi arriverà per primo ma chi offrirà un prodotto di cui il mondo si fida.

Discutiamo della tenuta sociopolitica degli Stati: l’apparato pubblico si sta inserendo prepotentemente nel campo economico. Tornerà la centralità del pubblico? Se sì, in che misura?

La risposta non può che investire due dimensione tra loro legate: la prima, connessa anche alla precedente riflessione, attiene appunto alla sfera della fiducia.

A tal proposito, vale la pena riportare il pensiero di Henry Kissinger che – in un editoriale apparso sul WSJ – ha voluto ribadire proprio questo aspetto: «Sostenere la fiducia dell’opinione pubblica è fondamentale per la solidarietà sociale, per il rapporto delle società tra loro e per la pace e la stabilità internazionali. Le nazioni aderiscono e prosperano nella convinzione che le loro istituzioni possano prevedere le calamità, arrestarne l’impatto e ripristinare la stabilità. Quando la pandemia da Covid19 sarà finita, le istituzioni di molti Paesi saranno percepite come fallite. Se questo giudizio sia obiettivamente equo è irrilevante». Sulla stessa lunghezza d’onda, Foreign Affairs che – in un lungo saggio, a più mani, apparso a fine ottobre – sottolinea come: «Fighting a Pandemic requires trust. Governments have to earn it».

Il secondo aspetto attiene al futuro ruolo del pubblico, ne ho scritto nel volume collettivo curato da Alessandro Campi per la Rubbettino: Dopo.

Personalmente sono convinto che per affrontare gli effetti economici della pandemia, assieme a strumenti di politica monetaria non convenzionali di entità mai vista prima, forse neanche al tempo del New Deal, dovremo implementare a un nuovo modello di economia sociale di mercato, dove il mondo del lavoro sia saldamente ancorato al sistema sociale.

Il tutto condito proprio da un nuovo protagonismo dello Stato.

Persino il più autorevole alfiere del thatcherismo, il Financial Times ha affermato che «Riforme radicali – che ribaltino la direzione politica prevalente delle ultime quattro decadi – devono essere messe in agenda. I governi dovranno accettare un ruolo più attivo nell’economia. Dovranno guardare ai pubblici servizi come investimenti piuttosto che debito, e ricercare regole che rendano il mercato del lavoro meno precario».

In sintesi, si reclama una nuova centralità del Pubblico, sia nel sistema del welfare che in quello della politica industriale; questo perché l’unica certezza che abbiamo è che un approccio efficace contro il Covid19 (e le sue conseguenze economiche) deve essere pari a una mobilitazione bellica nei termini delle risorse umane ed economiche disponibili, della piena consapevolezza dell’opinione pubblica, di un efficace coordinamento tra pubblico e privato.

I decisori politici dovranno essere pronti ad adottare una risposta sistemica, aperta all’apprendimento e dopo aver scartato rapidamente gli approcci fallimentari, “scalare” massicciamente quegli esperimenti che ci hanno restituito feedback positivi.

Ma per farlo occorre, come afferma appunto il FT, liberarsi dei tanti luoghi comuni che hanno anestetizzato e reso per lo più sterile il dibattito politico degli ultimi decenni.

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