A cura di Edoardo Manca
In partnership con Pillole di Politica
Gli studiosi della politica europea dell’integrazione, citando la religione, la lingua o la composizione etnica, illustrano come le nazioni cercano di preservare o superare il loro senso di distintività1 per costruire l’unità simbolica attraverso il linguaggio quotidiano e la pratica sociale.
I processi rilevanti sono situati all’interno di una costellazione di dinamiche legislative, culturali e basate sull’industria, che influenzano l’evoluzione delle relazioni interistituzionali.
Oggigiorno viene riconosciuto sempre più che i mercati e la politica dipendono da codici incorporati e da comprensioni culturali. Sappiamo sorprendentemente poco, tuttavia, delle relazioni tra mercati regolamentati, istituzioni politiche e identità culturali nazionali.
L’esame delle protezioni nazionalizzate per determinati beni, vale a dire gli alimenti, contribuisce allo scaturire di dibattiti relativi alla permeabilità dei confini nazionali all’interno delle strutture pan-nazionali dell’UE5 e sui modi in cui la globalizzazione stimola la resistenza alle tendenze culturalmente omogeneizzanti.
Il rapporto sociologico tra cibo e globalizzazione può essere accostato in modo particolarmente ricco, evidenziando la dialettica generata dalle tendenze omogeneizzanti del globalismo e l’emergere di nuove forme di politica identitaria attivate da un ambiente sempre più omogeneizzato.
Concettualizziamo questo accostamento come Gastronazionalismo. L’esame della costruzione politica degli alimenti come veicoli istituzionalizzati delle identità culturali nazionali getta una ricca luce teorica sui dibattiti tra integrazionisti e protezionisti europei.
La sovranità alimentare italiana
“[…] i prodotti di assoluta eccellenza in campo agroalimentare devono essere difesi in sede europea e con una maggiore integrazione della filiera a livello nazionale, anche per ambire a una piena sovranità alimentare non più rinviabile. […] Garantire che non dipenderemo da nazioni distanti da noi per dare da mangiare ai nostri figli. Perché tutti gli obiettivi di crescita possano essere raggiunti serve una rivoluzione culturale nel rapporto tra Stato e sistema produttivo, che deve essere paritetico e di reciproca fiducia.”
In questo modo, il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nel discorso programmatico del neo Governo italiano, esprime uno dei punti salienti del programma politico. L’attenzione richiamata alla filiera agroalimentare e alla gastronomia è un elemento chiave; in effetti è stato anche modificato il nome del Ministero delle politiche agricole in “Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste”, esattamente come il dicastero francese.
La volontà del Governo attuale è quella di “garantire che non dipenderemo da nazioni distanti da noi”. Per quanto riguarda le parole della Premier, bisogna fare una specificazione. L’Italia non ha una produzione interna autosufficiente per il grano duro, che importiamo dall’Ucraina, dal Canada, dall’Australia. Lo stesso vale per l’olio d’oliva, importato per un terzo rispetto a quello che consumiamo, e per il latte e tutti i suoi derivati, che non produciamo abbastanza nel nostro territorio.
E come una madre che decide cosa far mangiare ai suoi figli, Giorgia Meloni usa proprio un’espressione del genere nel suo discorso. Il significato sottostante è noto agli esperti di politolinguistica: la madre, in questo caso il governo guidato da lei stessa, sa cosa sia giusto dare da mangiare e cosa invece sia sbagliato, ai propri figli, in questo caso i cittadini, che “devono” dare ascolto alle sue parole. Un rapporto in cui si conferma la necessità di invocare il sentimento di affetto che un figlio dà alla propria mamma.
Il cibo proposto, in questo caso, rappresenta il mezzo con cui far percepire al cittadino il senso di responsabilità come nei confronti di un figlio per una madre. Inoltre, la sovranità alimentare proposta dall’attuale governo è esattamente l’opposto di quello che ha detto il Presidente del Consiglio, considerato che è un termine che si utilizza in produzione interna, ma in realtà è nato pensando ai paesi in via di sviluppo, ai paesi poveri la cui agricoltura spesso dipende dal mercato dei paesi ricchi.
Ad esempio l’Indonesia produce solo olio di palma perché serve all’Italia, non perché viene consumato all’interno del paese, mentre per il grano devono dipendere dalle importazioni. È questa la sovranità alimentare che paesi proprio come quello citato devono perseguire, mentre noi l’abbiamo già, non abbiamo problemi di approvvigionamento alimentare. L’apertura dei mercati dovrebbe favorire le nazioni che sono già avvantaggiate, in questo caso proprio l’Italia.
Il nuovo ministero della sovranità alimentare, affidato a Francesco Lollobrigida, si è posto l’obiettivo di difendere il settore agroalimentare italiano e valorizzare il cibo di qualità, mediante un “Fondo per la sovranità alimentare” con una dotazione di 25 milioni di euro per ciascuno degli anni 2023, 2024, 2025 e 2026. Nel dettaglio, la finalità del fondo consiste nel rafforzamento del sistema agricolo e agroalimentare nazionale mediante interventi aventi lo scopo di:
– tutelare e valorizzare il cibo italiano di qualità;
– ridurre i costi di produzione per le imprese agricole;
– sostenere le filiere agricole.
“Sostenere la cucina italiana nel mondo significa dare un messaggio politico molto preciso: alimentazione, salute, turismo e presenza in tutti i continenti. Significa avere un’Italia in grado di essere protagonista. […] La dieta mediterranea è importante perché è la migliore tutela della salute dell’uomo. Noi la difendiamo non solo per amor di patria ma perché questo tipo di alimentazione è la più sana e utile per la tutela del nostro corpo”
Così il vicepresidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani nel corso dell’incontro di presentazione alla Farnesina della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo. Il messaggio è molto chiaro: il cibo italiano va difeso perché è un simbolo di prestigio davanti alle altre culture e fulcro della dieta mediterranea, la migliore a livello globale.
“[…] E penso alla bellezza. Sì, perché l’Italia è la Nazione che più di ogni altra al mondo racchiude l’idea di bellezza paesaggistica, artistica, narrativa, espressiva. Tutto il mondo lo sa”
L’espediente del cibo è utilizzato per un ritorno ad una origine ed una tradizione mitica, nel quale la nazione è stato un simbolo e un ideale da proteggere. La domanda che sorge perciò immediata è se davvero i prodotti alimentari italiani sono così a rischio da richiedere un ministero che li tuteli ancora di più di quanto fossero già tutelati.
La risposta è controversa, ma è possibile richiamare all’attenzione che l’Italia è tra i paesi che da tempo ne protegge più, con 315 prodotti con marchi Dop, Igp e Stg (specialità tradizionale garantita), dove spiccano eccellenze come il Parmigiano Reggiano, il prosciutto San Daniele e l’aceto tradizionale balsamico di Modena.
Il Gastronazionalismo è impiegato dalle forze politiche, in particolare da populismi di estrema destra, neo nazionalismi o movimenti identitari, alla stregua di un meccanismo di difesa. Una politica che difende il proprio valore, costituito da tradizioni, cultura e soprattutto la nazione stessa, “attaccando” in modo figurato, tutto ciò che non è racchiuso nella barriera di difesa autoimposta. L’odio, la xenofobia, l’etnocentrismo, sono alcuni degli elementi che si inseriscono nei nazionalismi, negli estremismi ideologici e totalitari.
La concezione per cui un paese debba chiudersi, ripiegarsi su se stesso, divenendo quindi arido, sterile, vano, è portatrice in conclusione, di un declino inesorabile. Una nazione “vince” solamente se si apre al mondo, se accoglie e si offre alle realtà internazionali; un popolo che rifiuta il nazionalismo e ammette la globalizzazione in una veste competitiva, riuscendo a diffondere anche i propri prodotti, i propri ideali, ma altresì accettando quelli esteri.
È semplicemente sbagliato un ritorno alle tradizioni e al passato con lo scopo di instaurare un’autarchia sovranista politica ed economica. Le modalità attraverso cui una nazione riesce a crescere, non avvengono tramite l’attaccamento al retaggio passato, alcune volte costituito ad hoc per propaganda. È sufficiente rispettare la lezione della storia che ci racconta che le grandi nazioni, ma soprattutto i grandi popoli, sono diventati grandi quando hanno accolto le occasioni offerte da società capaci di dialogare con gli altri paesi e contaminarsi.
Chi dice il contrario, paradossalmente, non agisce nell’interesse di nessuno, se non al proprio, autolegittimando le proprie ideologie d’ostilità e di odio.