“La vita è il risultato delle scelte che facciamo”
E a volte è il risultato di una notte senza fine, come i rapporti umani più folli, le paure più segrete, gli amori che non muoiono neanche quando si muore.
“Fino alla fine”, il nuovo film di Gabriele Muccino, è un dramma intenso, vibrante, che ci porta a esplorare le profondità delle relazioni, in particolare quella complessa e ardente dinamica che lega gli amici di una vita, elevandoli a fratelli, arti di uno stesso corpo che, se separati possono anche cavarsela, non possono però sopravvivere.
Al centro di questa storia, infatti, i personaggi si muovono tra desideri inesplicabili e lealtà indissolubili, in una ricerca incessante e appassionata della propria identità, ma anche di ciò per cui vale la pena vivere (e sopravvivere).
Protagonisti di questa avventura sono quattro giovani: Sophie, californiana in fuga da sé stessa, e tre ragazzi italiani — Giulio, Komandante e Samba — legati da un rapporto che travalica i confini dell’amicizia per diventare vero e proprio vincolo di sangue, in cui non è più importante la sopravvivenza, quanto l’unione che oltrepassa tutto. Il legame tra i tre ragazzi si esprime con un’intensità primordiale, uno scambio d’intenti che unisce nella buona come nella cattiva sorte, nell’amore come nell’odio. È la complicità della giovinezza, dell’infanzia, la condivisione di sogni folli e confini oltrepassati insieme, che li rende più vicini di quanto la semplice definizione di “amici” possa racchiudere. Muccino porta sullo schermo una lealtà viscerale, un rapporto quasi ancestrale che si esprime attraverso gesti e sguardi, in una fisicità che racconta la profonda connessione e protezione reciproca.
La fratellanza emerge come una filosofia interiorizzata che va oltre i meri legami familiari; una scelta più inconsapevole che consapevole, una non-scelta, di appartenenza e sostegno reciproco, oltre la ragione, la salvaguardia di sé. Per i protagonisti, il loro legame è il distillato di una connessione che trascende i nessi biologici e le convenzioni sociali, radicato in una lealtà che non conosce compromessi. Non si tratta solo di condividere frenesie e dolori, ma di affrontare insieme le sfide dell’esistenza, imparando a riconoscere e accettare le fragilità dell’altro senza giudizio. È un legame che diventa rete di sicurezza, un porto a cui tornare, in cui ciascuno è libero di essere sé stesso, sostenuto e protetto dagli altri. In questo senso, l’amicizia rappresenta un ideale di coesione umana, uno scambio di anime e di vite che porta i personaggi a camminare compatti, sempre e comunque, anche se ciò vuol dire cadere insieme, perdersi. È la condivisione di un cammino, fatto di esperienze e ideali condivisi, in cui i confini tra sé e l’altro si sfumano, lasciando spazio a un senso di comunione totale. Per Giulio, Komandante e Samba, l’amicizia è come un giuramento non scritto, una promessa di esserci l’uno per l’altro “fino alla fine”, qualsiasi cosa accada.
Muccino esalta questa dinamica, mostrandoci come, nella loro unione, i protagonisti trovino la forza di affrontare le proprie paure più profonde e di sfidare i limiti imposti dalla società e dalle proprie insicurezze, anche al confine con la morte, anche in assenza di miracoli. L’amicizia, carnale, indissolubile, diventa così non solo un vincolo, ma una scelta di vita, una forza che alimenta la loro identità e la loro visione del mondo, spingendoli a vivere in modo autentico, senza maschere.
La città di Palermo diventa lo scenario di un mondo senza limiti, in cui le strade antiche e il paesaggio carico di storie si mescolano al loro stesso spirito ribelle, diventando parte di quel nodo che li tiene uniti. È una Palermo criminale ma, come ci tiene a specificare lo stesso regista, non mafiosa; una Palermo di frenesia e di gioia, simbolo di giovinezza e di libertà, di sogni sempre vagheggiati e sempre osteggiati da una realtà cruda, sofferente. Qui, la fratellanza diviene un rifugio e una forza, lo scudo che li spinge a oltrepassare ogni limite e a sentirsi sempre e comunque al riparo, come se avere un amico, un fratello al fianco, ti impedisse di morire, ti spalancasse davanti una nuova vita, e poi un’altra e un’altra ancora, ognuna pregna di nuove possibilità, nuove fughe, domani migliori.
A contrastare l’apparente compattezza di questo trio arriva Sophie, interpretata da una magistrale Elena Kampouris, incarnazione di un’irrefrenabile fame di vita e di un dolore sordo, senza fondo né parola. Per lei, ogni esperienza è una scoperta, una corsa contro il tempo per vivere intensamente, compensando così un passato carico di sogni infranti.
Il padre assente, forse scapestrato, una carriera da pianista abbandonata?
Non sappiamo niente del suo passato, solo che Sophie cerca se stessa, col dolore inciso nelle vene, attraverso l’avventura, l’azzardo, il pericolo, attirando a sé i tre amici con la potenza di un vortice che li spinge a interrogarsi su desideri e paure che non avevano mai osato affrontare. La sua energia è elettrica e disturbante, un elemento dirompente che sfida il loro equilibrio e che li porterà a confrontarsi con le proprie fragilità e ambizioni più intime.
Cosa si è disposti ad affrontare pur di confermare a se stessi di aver vissuto davvero? Di non aver semplicemente attraversato questa Terra come dei fantasmi?
Muccino cattura questi drammi e intrecci disfatti con una regia dinamica e coinvolgente, alternando momenti di azione pura a sequenze più intime, come in un gioco di chiaro-scuri che svela ogni sfumatura delle emozioni dei protagonisti.
Con “Fino alla fine”, il regista firma un’opera che è insieme un inno alla gioventù e alla vulnerabilità di un’età in cui la ricerca di sé si mescola alla voglia di superare ogni limite, per vivere senza freni, senza regole.