Fenomeni ESP e dove trovarli: la prima psicoanalisi

A cura di Ivan Di Marco e Carolina Di Iacovo

“Il mio intento è stato soprattutto quello di presentare all’opinione pubblica, che per i cosiddetti fenomeni occulti altro non ha se non un sorriso sprezzante, i numerosi legami che questi fenomeni hanno con il campo sperimentale del medico e della psicologia e di far cenno ai problemi, numerosi e importanti, che questo campo inesplorato tiene ancora in serbo per noi.”

Nel 1902, scriveva così Carl Gustav Jung, nelle conclusioni della sua tesi di dottorato—uno dei suoi tanti auspici per la posterità rimasti, a oggi, ancora inevasi. Ma se per molti l’argomento è solo fonte di un “sorriso sprezzante”, così non è per alcuni analisti che hanno fatto proprio l’insegnamento della psicologia complessa, ovvero di mantenere una mente aperta di fronte a qualsiasi manifestazione dello psichico. Perché, in fondo, non si sa mai dove potrebbero portare quei “legami” di cui parlava lo psichiatra svizzero…

Nel caso di chi scrive, tali legami hanno condotto a un libro di recente uscita, di due psicoanaliste junghiane del Centro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA) di Roma: Un’amabile illusione, di Angela Connolly e Angiola Iapoce. E se già il testo ci ha permesso di scovare un nuovo vertice da cui osservare lo sviluppo della psicoanalisi, poter intervistare Angiola Iapoce ha offerto l’occasione di riprendere il dialogo caldeggiato dalle parole di Jung. Un dialogo che, se da un lato non potrà e non dovrà esaurire lo scetticismo, ci auguriamo possa strappare un sorriso, non sprezzante, ma di speranzosa curiosità.

Cosa s’intende quando si parla di fenomeni occulti, oggi detti ESP o, più genericamente, paranormali?

Extra Sensory Perception, percezione extrasensoriale: al di là dei sensi. È un’etichetta, spiega Iapoce, che serve a spogliare dell’alone di mistero tutti quei fenomeni non riducibili a spiegazioni scientifiche classiche. Possiamo descrivere certe esperienze, soprattutto in ambito psichico, ma ciò non equivale a darne una spiegazione—quantomeno, non secondo la logica di nessi causali. “Un sano scetticismo,” continua la psicoterapeuta, “aiuta a mantenere un atteggiamento analitico di cautela e apertura.”

Cautela e apertura non sono mai troppe. Specie in un ambito in cui la privatezza del dolore mentale può isolare chi soffre: nelle parole di John Donne, “la massima miseria della malattia è la solitudine”. Perché è sempre più facile negare ciò che non si comprende, cercare di confinarlo là dove non può contaminare il mondo dei ‘sani’. E non è un caso che, perfino tra professionisti della salute mentale, il sano scetticismo si traduca fin troppo spesso in una rigida incredulità. Specie con i casi limite del malessere psicologico—spettro psicotico, esperienze dissociative, gravi disturbi di personalità.

Un conto è accettare gli indicatori di un manuale diagnostico, altra cosa è sospendere il giudizio per fare posto alla comprensione di un individuo i cui sintomi ci colpiscono come un enigma. Ma questo shock non vale solo per i casi limite: quanto potremmo capire di più delle nevrosi, o addirittura della psiche ‘normale’, rinunciando, almeno per un momento, all’arroganza di una spiegazione?

Nella clinica odierna, può essere d’aiuto sviluppare un ascolto specifico per l’incomprensibile, il “perturbante” di freudiana memoria?

La tesi di dottorato di Jung è uno studio dei “cosiddetti fenomeni occulti”, che poté osservare molto da vicino grazie alle esperienze medianiche di una cugina. Lo studio empirico, il più possibile scevro da pregiudizi—in un tempo in cui ancora non si descrivevano i fenomeni dissociativi con la stessa odierna dovizia di etichette e specificatori—, portò lo psichiatra svizzero, di lì a pochi anni, a ipotizzare che perfino la mente non-medium sia capace di dissociarsi: che sia naturalmente dissociata e dissociabile.

I ben noti complessi a tonalità affettiva—uno dei capisaldi della teoresi junghiana—devono molto alle esperienze giovanili di Jung, sebbene “i fenomeni occulti non abbiano trovato posto in una psicologia positivista”, ricorda Iapoce. Infatti, negli stessi anni, sarà la psicoanalisi medicalizzata di Sigmund Freud a spuntarla, adombrando i vari Janet, Flournoy, Jung e quanti, come loro, erano meno in linea con un’idea di progresso illuminista.

Eppure, oggi, non è solo d’aiuto, ma anche opportuno, saper sintonizzare la psiche in direzione del ‘mistero’. In ambito clinico, Iapoce trova che il lavoro con gli adolescenti ne offra un chiaro esempio: chi meglio dei ragazzi e delle ragazze subisce il fascino del perturbante? E non è proprio durante l’adolescenza, quando ancora si crede all’impossibile, che sbocciano le più ardenti passioni e si forgiano i migliori talenti?

Insomma, un orecchio/occhio clinico normalizzante, pronto a chiudersi davanti all’ignoto per continuare a fissare il già noto, è molto probabilmente inutile per lo scienziato, addirittura nocivo per il terapeuta. Del resto, “senza desiderio e senza memoria” sono parole di T. S. Eliot, che l’analista britannico Wilfred Bion mutuò proprio per esprimere come, nel nostro lavoro, considerare la realtà una grande incognita sia l’unica maniera di progredire senza cadere vittima dei pregiudizi.

Nell’immaginario collettivo attuale, dove si può rintracciare il corrispettivo dei “cosiddetti fenomeni occulti”?

Per la contemporaneità e non solo, un chiaro retaggio della fascinazione per l’inspiegabile si ritrova nelle produzioni creative, soprattutto di stampo fantasy e fantascientifico. “È difficile entrare in contatto con gli adolescenti senza contemplare questo aspetto immaginale,” ricorda Iapoce. Un aspetto che aprirebbe a un mondo d’immagini che trascendono i sensi e popolano la psiche dall’alba dei tempi. Un mondo necessario all’umanità… almeno quanto quello ‘reale’.

Infatti, non è infrequente che il parto della mente di un individuo visionario possa trovare il modo di diventare realtà. Si pensi alla fisica quantistica, con i suoi entanglement, princìpi d’indeterminazione, leggi di Planck: tutto quello che prima sembrava solido e ineluttabile si è via via sfrangiato, fino a svanire nell’aria. Per dirla con le parole dell’immaginario attuale—fatto di podcast e videogiochi, serie TV e social—, non può che rivelarsi azzeccato l’insegnamento di Nolan Bushnell, il fondatore di Atari: “la fantascienza ha una caratteristica: prima o poi, si realizza.”

Insomma, meglio fare i conti con l’indeterminatezza del mondo, oltre che della psiche. “Anche se ciò procura un’inquietudine che porta a fermarsi,” afferma Iapoce, aggiungendo che “d’altronde, Jung non ha mai voluto definire in termini stringenti alcunché della sua teoria: le antinomie che fondano la psiche e il mondo cozzano con una realtà ontologica.”

Dello stesso parere sembra essere il succitato Bion, con la sua riscoperta di Platone nei “pensieri in cerca di pensatore”. Idee che preesistono, incompiute, in attesa che qualcuno sollevi il velo di Maya e le mostri al mondo. E perché no: se siamo passati dai fluidi animali, all’etere, all’inconscio, chi può sapere cosa riserverà il futuro? Quali fenomeni si mostreranno al di là della nostra attuale capacità di percezione?

Veniamo al suo libro: Un’amabile illusione risale a un progetto del 1995: da dov’è nata l’ispirazione?

Le parole per dirlo” di Cardinal e “La scoperta dell’inconscio” di Ellenberger. Angiola Iapoce offre coordinate precise, ammettendo “che il fascino della prima psicoanalisi, quella dei pionieri, si è tradotto nel tentativo di operare una ricostruzione storica, che non ha la pretesa di suggerire una clinica dei fenomeni ESP.” 

Ma il suo interesse per le origini della scienza del profondo è anche legato alle frequentazioni filosofiche: quando l’oggetto di studio è l’essere umano è molto difficile erigere confini troppo stringenti. Se per Freud c’è una differenza piuttosto netta fra coscienza e inconscio, al contrario, Jung li considera orizzonti che avanzano di pari passo. Per cui, una quota di ignoto resta parte integrante della realtà o, quantomeno, della visione che ne abbiamo. In questi termini, un fenomeno può dirsi occulto nel senso di imprevisto, un punto interrogativo in attesa di possibili risposte che apriranno ad altre domande. Del resto, cosa faremmo senza questa tensione a guidarci verso l’ignoto?

Qual era il suo rapporto con la sua co-autrice, Angela Connolly?

Le due psicoanaliste junghiane erano legate da una “collaborazione a base di amicizia personale e stima reciproca,” dichiara Iapoce. In un tempo in cui non esisteva lo psicologo come professionalità, l’incontro tra una psichiatra scozzese e una filosofa italiana non poteva che determinare un reciproco arricchimento.

Angela Connolly, dopo la formazione londinese, si trasferì in Italia e, presso il CIPA, insieme ad altre storiche personalità dell’istituto junghiano, incontrò la futura amica e collega—quale luogo migliore per una contaminazione in nome della complementarità?

D’altronde, “Un’amabile illusione” è il frutto di due anime. Una più materica, dedicata agli aspetti storici dello ‘scomodo’ passato della psicoanalisi. L’altra più spirituale, affascinata dalle possibilità che si dischiudono dinnanzi all’incomprensibile. L’ironia—o forse è solo coniunctio—sta nel fatto che Iapoce abbia trovato nella formazione filosofica il suo ancoraggio materico, mentre i voli dell’anima siano stati appannaggio della psichiatra Connolly.

E se gli incastri tra le persone sono acausali, per dirla con Jung, si potrebbe considerare l’intreccio di queste due visioni—figlie di un tempo in cui la mente era ancora appannaggio di alienisti e pensatori, ma sarebbe stata di lì a poco liberata da Basaglia—come la testimonianza di una profonda fede nella realtà. Fede nel senso laico della psicologia complessa, secondo cui non c’è fenomeno empirico che possa essere privato del suo statuto di esistenza. Come diceva lo psichiatra svizzero: “reale, tuttavia, è ciò che agisce.”

Il titolo del saggio è tratto da una lettera di Freud a Jung: “[…] resto pertanto in attesa di sapere di più circa le sue ricerche sul ‘complesso spiritico’, con l’interesse che si ha per un’amabile illusione non condivisa”: perché questa scelta?

“Freud e Jung divergevano per via di una differente posizione rispetto all’oggetto della conoscenza,” spiega Angiola Iapoce. Il neurologo austriaco voleva difendere la sua nuova scienza da ogni possibile accusa di infondatezza scientifica. Infatti, per quanto il desiderio di credere al “complesso spiritico” fosse genuino, proteggere il buon nome della psicoanalisi imponeva un duro scetticismo nei riguardi di tutti quei fenomeni non spiegabili con nessi causali, come i poltergeist e altre coincidenze significative.

Tant’è che nel saggio del 1921, Psicoanalisi e telepatia, Freud riconosce un pericoloso legame fra occultismo e induzione telepatica:

[…] tutto il mio materiale ha a che fare con un unico punto: l’induzione del pensiero; su tutte le altre cose prodigiose di cui parla l’occultismo non ho proprio niente da dire. […] Forse il problema della trasmissione del pensiero vi appare decisamente insignificante se confrontato con il grande e magico mondo dell’occulto. Eppure pensate che passo enorme sarebbe rispetto alle concezioni di cui finora ci siamo fatti sostenitori se accogliessimo anche soltanto quest’unica ipotesi.

In supporto a questa tesi, Freud conclude il saggio con l’aneddoto della sua visita alla tomba di Saint-Denis, primo vescovo di Parigi e martire cristiano in Gallia. Il custode della basilica gli narra che quando fu decapitato, Saint-Denis camminò con la propria testa in braccio per morire oltre la Senna, nel punto in cui sarebbe sorta la cattedrale che porta il suo nome. E Freud ricorda come il custode pronuncia le parole “Dans des cas pareils, ce n’est que le premier pas qui coûte”, a cui risponde, “Il resto viene da sé”. Come a dire che sarebbe bastato credere anche solo al primo passo del martire senza testa per perdere la ragione… motivo per cui “quel passo non volle farlo”, afferma Iapoce.

Tuttavia, il bisogno di certezze assolute, con le quali sbaragliare ogni nemico della ragione, comporta un sacrificio troppo grande per chi ha a che fare con l’ignoto. L’analista—ma anche lo storico—che rigettasse ogni traccia di inconoscibile che potrebbe condurlo a conclusioni dubbie, si ritroverà a non poter seguire nessuna via per paura di compiere il primo passo. Oppure, a dover battere sempre lo stesso sentiero, quello che gli consente di dormire meglio la notte, escludendo a priori tutto ciò che potrebbe portarlo fuori strada, nelle terre selvagge del non conosciuto.

Ma non tutti gli uomini di scienza hanno bisogno di tali ‘certezze’ per potersi incamminare. Carl Jung, libero dalla preoccupazione di dover legittimare una nuova scienza—oltre che dal bisogno di approvazione dei cosiddetti junghiani—, poté seguire la via dell’esperienza ovunque essa lo portasse, perfino a costo di cambiare molte volte idea su ciò che credeva di conoscere.

Per concludere, una domanda personale: com’è stato riprendere il vostro lavoro e pubblicarlo dopo tutto questo tempo?

“Rimettere insieme quel che restava del nostro lavoro, non potendo contare più su alcun file digitale, ripartendo dai manoscritti—alcuni battuti al PC e altri no—, fu un modo di dare una forma compiuta a qualcosa che era rimasto sospeso.” Angiola Iapoce racconta così il ritorno su un lavoro che si era fermato quasi trent’anni prima. Una rispettosa rievocazione, un omaggio, un ricordo. Una passione condivisa con un’amica perduta, Angela Connolly.

Una passione per la preistoria della disciplina analitica, di quel periodo di grande fermento in cui fantasia e realtà sembravano sempre più vicine. Ne fu un esempio il cinema—con i vari Nosferatu, Metropolis, La caduta della casa Usher, Lo studente di Praga—, grande catalizzatore della coscienza collettiva. E così, gli Charcot e i Janet, i Myers e i Flournoy, i Freud e gli Jung, reagirono al dogma della psicologia sperimentale di fine ‘800, portando nuova luce nelle tenebre, ma anche le tenebre nella luce. D’altra parte, l’inconscio è il risultato di un gioco di forze complementari: di un credere ai fantasmi à la Bergson e, al tempo stesso, del desiderio di spiegare il mondo. Senza l’incontro di queste due spinte, l’inconscio sarebbe rimasto… del tutto inconscio, e così molte altre idee conquistate nei millenni dall’umana sapienza.

Un’amabile illusione è la storia dell’incontro fra il bisogno di sapere, che resta scettico di fronte all’inspiegabile, e il bisogno di credere, che trascende la conoscenza e resta aperto al possibile. Un incontro-scontro che, come s’impara in casa Jung, genera l’energia necessaria alla “pulsione di conoscere” e ci permette di procedere verso l’ignoto, un passo dopo l’altro. Anche quando il primo passo sembra condurre all’impossibile.

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