Il centrodestra è la vittima politica della partita del Quirinale. Malgrado avesse i numeri sufficienti per manifestare una presa di forza verso gli altri partiti, si è fatto sfuggire l’occasione di eleggere un presidente sì condiviso ma anche espressione della propria area politica e culturale. Salvini, battezzatosi kingmaker, con la legittimazione tacita degli alleati, prima ha mandato al rogo i nomi della Presidente del Senato e del Capo del Dis, poi ha ripiegato su Mattarella, per il quale non nutre stima da sempre (il web non disperde le tracce scritte che vi si lasciano). L’elezione di Sergio Mattarella è una sconfitta per tutto il centrodestra, fuorché per Giorgia Meloni, che si sta intestando il valore della coerenza politica e ora può dare le carte. Se la coalizione vuole sopravvivere alla tempesta, deve seguire un’agenda fatta di tre punti: federazione, meritocrazia, identità.
L’unione fa la forza, echeggia un antico detto. Il centrodestra deve riunirsi sotto un’unica egida, in un unico contenitore, con un solo leader. L’errore principale commesso dai partiti dopo lo scioglimento del Pdl, che è stato una cellula mai evolutasi appieno, fu eliminare alleanza e progetto. Ovvero, a causa dei dissidi interni, fu cancellata l’unità e, grave sbaglio, venne dimenticata l’idea. Sembrò infatti che dopo il 2013 l’individualismo politico dovesse essere la ricetta, Renzi docuit, in un periodo che invece avrebbe tanto necessitato di solidità istituzionale. Alla base della federazione dovrà esserci un dialogo franco, che spesso mancò tra i leader del Pdl, e una dialettica costruttiva. È controcorrente pensarlo, visti i tempi, eppure vanno acquietate le singolarità dei leader politici. Tanti degli errori commessi dalla classe politica attuale, nelle persone dei suoi dirigenti, derivano dall’egocentrismo di essi. Alla cui radice stanno due fattori: la voglia di emergere e la mancanza di confronto. Il progetto federativo, invece, rallenterebbe le brame di arrivismo dei leader perché la riuscita dipenderebbe dal lavoro condiviso; inoltre non potrebbe mancare il confronto, giacché scomparirebbero i simboli di partito e la riunione avverrebbe sotto un nuovo logo o titolo. E se l’errore più diffuso in politica oggi è la gara a chi arriva prima, soprattutto tra alleati, la federazione annullerebbe o ridurrebbe al minimo l’eventualità che tale errore venga commesso. I lavori e i progetti sarebbero compiuti con un fine comune e con l’aiuto degli altri. Un esempio di solidarietà politica forse ottimistico, ma utile ai fini futuri.
Una delle piaghe più tragiche della politica attuale riguarda la meritocrazia. Ai vertici delle segreterie di partito non si arriva per meriti, per curriculum, per “gavetta”, ma per nepotismo e nefasti do ut des. Il risultato è evidente: impreparazione, sgarbo istituzionale, mancanza di cultura politica. Che producono errori fatali, candidati improbabili (le ultime elezioni amministrative dentro al centrodestra esemplificano) e mancanza di visione. Lo schema della federazione prevederebbe un rituale congressuale al quale i candidati arriverebbero dopo mesi di campagna elettorale; in poche parole, si arriva ai vertici non con una nomina formale, ma a seguito di un duro lavoro sul territorio. Chi ha delle idee le deve esporre anche con metodi innovativi: si lancerebbero delle campagne di riforme statali e partitiche, dei manifesti di promozione del pensiero liberale, liberista e conservatore. La meritocrazia, risultato di un processo sostanziale di “pulizia politica”, farebbe rivivere il centrodestra e farebbe appassionare di nuovo quella fetta di ex elettori che, stanchi e delusi da leader retorici o stantii, avevano disertato le urne o votato per altri. Quando, poi, un leader è stato legittimato dai suoi, diventa il rappresentante portavoce dei valori e delle battaglie della coalizione. In caso di inerzia o di scelte sbagliate, si ripete il procedimento, dopo averlo sfiduciato. Senza trame, senza intrighi, ma alla luce del congresso.
Infine, al centrodestra attuale manca un’identità. La Lega porta avanti delle battaglie talvolta diverse da quelle di Forza Italia e le narra in modo altrettanto diverso da come lo fa Fratelli d’Italia. Non può esserci incertezza dentro Forza Italia su unioni civili e ddl Zan, se Lega e Fdi sono alleati e si esprimono in maniera contrapposta sugli stessi temi. E l’esempio, s’intende, vale reciprocamente. L’identità è l’insieme di valori che permettono a uno schieramento di distinguersi, essere riconosciuto e votato. Il centrodestra federale dovrà impostarsi su un assetto valoriale di stampo liberal-conservatore (immaginando anche Fdi al suo interno). Una visione aperta sui temi sociali, sui diritti, un’idea politica che non puzzi di vecchio, come spesso accade. Ma ben radicata nella storia politica della coalizione, che rispetto alla sinistra è sempre stata alternativa. Conservare innovando, per sintetizzare. E, soprattutto, senza chiudere gli occhi dinnanzi ai problemi del Paese solo per solleticare una fetta – marginale – di elettori. Se il modello federale è quello statunitense, ben venga, purché adattato alle peculiarità dell’Italia e della politica italiana; pertanto moderno, proiettato al futuro e senza ambiguità riguardo al passato. Ciò, infine, non significa azzerare le diversità. Significa, invece, valorizzarle ponendole su una strada comune. In altre parole, trovare il punto di convergenza tra le principali battaglie dei partiti membri e seguirlo.
Forse il gesto più difficile da compiere per percorrere questa strada sarà il bagno di umiltà che i leader dovranno farsi. Rinunciare alla singolarità in nome degli altri. Ma se è vero che la ricerca del consenso è oggi l’unico fine della politica, se non altro la federazione, così ragionando, farebbe ritrovare la luce a molte personalità che sono finite in ombra. Con l’unica differenza, sostanziale: si lavora insieme e si vince insieme.
Aver eletto Mattarella non significa aver sciolto l’impasse, bensì averne soltanto rimandato la soluzione. L’ultimatum è ora.