Esther Kinsky al Salone del libro: scrivere della natura, del trauma e della memoria
Tra i candidati al Premio Strega Europeo di quest’anno, vinto da Emmanuel Carrère con il suo V13, edito in Italia da Adelphi, c’era anche la scrittrice, poeta e traduttrice tedesca Esther Kinsky. Durante la seconda giornata del Salone del Libro, nello spazio dedicato agli scrittori e alle scrittrici tedesche organizzato dal Goethe Institut, Esther Kinsky ha presentato il suo ultimo libro Rombo, edito da Iperborea, candidato allo Strega Europeo e prodotto ultimo di una produzione letteraria che si può, forse, ascrivere alla grande e variegata categoria del Nature writing – o, in tedesco, Naturschreiben.
Il Nature writing, in unione oggi con la più recente ecocritica, è un tipo di scrittura che, fin dal Walden di Thoreau, si muove a partire da un intento epistemologico, di osservazione della natura, ed ha il fine di rendere visibile e denunciare il problema del rapporto tra umano e natura, in una cornice che è eminentemente pedagogica, politica e sociale.
Con il suo ultimo libro, Rombo, Esther Kinsky ci porta nella regione del Friuli-Venezia Giulia, dove quarantasette anni fa un terremoto disastroso, scatenato da quello che nella tradizione folkloristica friulana si chiama Orcolat – un mostro, causa di tutti i terremoti –, ha distrutto ampia parte del Friuli collinare, colpendo in particolare le province di Udine e Pordenone.
Kinsky, che della regione è assidua frequentatrice, nel suo romanzo ci restituisce del terremoto, non la descrizione oggettiva, lineare, di come è avvenuto e dei disastri che ha portato, ma il racconto di sei personaggi intorno ad esso: un racconto che, come ha affermato lo scrittore e traduttore Vincenzo Latronico, in dialogo al Salone con Kinsky, diventa circolare, perché le voci dei personaggi tornano ossessivamente sulle stesse scene e sugli stessi ricordi, arricchendoli e rivisitandoli ogni volta, restituendo un tipo di memoria, sia individuale che collettiva, che si “naturalizza” e prende lo stesso ritmo della natura.
È questo farsi “naturale” della narrazione che, d’altronde, caratterizza la struttura e i contenuti di Rombo: il racconto dei fatti e dei ricordi non segue l’arco dello sviluppo narrativo, convenzionale e lineare, dell’eroe come individuo unico, ma sono la natura e un tipo di umanità simile alla natura, collettiva e fatta di parentele, che prendono il sopravvento. Nelle parole di Esther Kinsky: «Dal punto di vista estetico io non credo nella narrativa tradizionale, nel modo di narrare convenzionale. Sono più interessata a un approccio maggiormente differenziato dal punto di vista linguistico, al lavorare con i diversi livelli del linguaggio.
Qui c’è la storia della natura, che è inseparabile dalle storie umane raccontate, perché mi confrontavo con un’area in cui i destini della gente corrispondevano a quelli di un paesaggio che chiamerei con il nome disturbed surfaces, disturbed lands (superfici, terre disturbate)». Il termine“superfici disturbate”, come spiega Kinsky al pubblico del Salone, è un termine che proviene dalla botanica e che si applica a superfici che, dopo l’intervento umano, la natura torna a reclamare e su cui la natura prende il sopravvento. Questo concetto, nella poetica-etica di Kinsky, si può applicare però ad altre tipologie di superfici: a una malattia fisica, come alla memoria, perché la memoria, individuale e collettiva, cambia ogni volta che la ripercorriamo.
È nel concetto della disturbance, quindi, che natura e condizione umana trovano il loro punto d’unione, perché «Quando parliamo di norma e di disturbi, arriviamo a capire che il disturbo coincide con la condizione umana, e che tutto intorno a noi porta tracce di un qualche intervento umano che genera questo disturbo». E il disturbo, nella regione collinare del Friuli attraversata da Kinsky, era e continua ad essere estremamente condensato: si tratta infatti di una regione che vive nell’intersezione di vari strati, sia geografici che storici, che portano in sé il segno delle migrazioni profonde che l’hanno attraversata, delle tradizioni popolari che nondimeno continuano a mantenersi e dell’estremo sfruttamento industriale di cui i suoi territori sono stati fatti oggetto. Tutto ciò, combinato all’evento disastroso del terremoto, continua a permeare la memoria degli abitanti come un trauma che, tuttavia, come ha riportato Kinsky, «è un trauma che viene da una situazione senza un guilty party, in cui non c’era nessuno da incolpare».
La memoria post-traumatica, in questo caso, è strettamente legata al bisogno di trovare un linguaggio che sappia dire la natura, i suoi mutamenti e la sua “emergenza”. Kinsky sembra aver trovato questo linguaggio in Rombo, grazie all’intersecarsi di una storia orale «finta, ma nondimeno vera», con le piccole leggende e invenzioni di cui è intessuta la memoria, usando un lessico scientifico che, portato fuori dalla scienza, restituisce in parole la natura e il territorio, diventando lessico nuovo e propriamente poetico.
Quel che ne risulta è un libro che sa narrare l’unione tra l’essere umano e il paesaggio in cui esso si è sempre inserito, in una prospettiva etica e politica, oltre che letteraria, che sia in grado di restituire all’umanità un rinnovato senso di sé e del suo rapporto con la natura. Per dirla con le parole di Esther Kinsky: «Io sono interessata alle persone, al modo in cui articolano la loro vita, alla loro necessità di essere viste; e la scrittura è uno strumento per raccontare ciò. Anche se parlo della natura, mi interessa il rapporto delle persone con la natura, come la raccontiamo e come la ricordiamo».