Le polemiche che investono la lingua italiana non sono estranee a nessuno, tanto meno sono una prerogativa della nostra epoca. In particolar modo, di recente uno dei dibattiti più accesi è stato quello che riguardava l’uso del femminile in alcuni nomi di professione, i quali generalmente erano caratterizzati dal maschile (chiamasi anche “maschile non marcato”, come da alcuni linguisti piace essere definito). Dunque si dice “sindaco” o “sindaca”? “Prefetto” o “prefetta”? E se da cinque secoli l’Accademia della Crusca si è proclamata paladina della normalizzazione linguistica, perché non chiamarla in causa anche ora? La questione è stata affrontata da Claudio Marazzini, Presidente dell’Accademia della Crusca, che espone quelle che possono considerarsi le posizioni dell’Accademia. Si parte sicuramente dal concetto di “genere”, e da quanto questo abbia condizionato la vita delle donne in epoca moderna; non è un segreto che in passato alcuni titoli o professioni erano prettamente maschili e, logicamente, anche il lessico si è adattato a questo stato di cose, assumendo quindi forme maschili. Ad oggi, la situazione (viva Dio!) è radicalmente cambiata e, sebbene persista ancora qualche stantia opposizione, le donne sono riuscite a ricoprire con successo quei ruoli ai quali un tempo difficilmente potevano ambire. Questa situazione è a tal punto diventata norma, a tal punto è diventata naturale, che anche il linguaggio ne ha risentito e si incomincia ad essere più esigenti nei confronti del lessico, in nome di una maggiore rappresentatività verso il panorama femminile. “La lingua è una democrazia, in cui la maggioranza governa, i grammatici prendono atto delle innovazioni e cercano di farle andare d’accordo con la tradizione, e le minoranze, anche ribelli, hanno pur diritto di esistere, senza dover temere la gogna mediatica. Dunque mi pare giusto accordare il diritto di scrivere e di parlare anche al passatista (non raro) che non ha fatto neppure il primo passo, che non è nemmeno arrivato ad accettare “la sindaca” – dice Marazzini nella postfazione al libretto “Sindaco e sindaca: il linguaggio di genere”, scritto da Cecilia Robustelli.
Tutto ciò non è esente da eccezioni: per alcuni termini che vanno ad indicare il titolo di chi ricopre una certa carica (Marazzini porta come esempio “Presidente della Repubblica”), il maschile è ancora d’obbligo, in virtù di quella “non marcatezza di genere” tipica del maschile, che invocavamo poco sopra.
Se si volesse mettere, un po’ frettolosamente, un punto a tale questione (si badi: si potrebbero scrivere pagine e pagine a riguardo, ma ciò non credo sia congeniale all’occasione), si potrebbe concludere con un invito: che si segua la tradizione o si accetti l’innovazione, definire bello o brutto l’utilizzo di termini come “sindaca” o “ministra” è semplicemente un punto di vista soggettivo e quindi nullo dal punto di vista della validità grammaticale. Semplicemente, bisogna arrendersi ai tempi ed aspettare che la norma d’uso linguistica faccia il suo corso e imponga la forma che meglio risponde alle esigenze della società. Fermo restando il fatto che, da un punto di vista prettamente femminile, si possono trovare sicuramente altre innumerevoli manifestazioni nel registro linguistico quotidiano che possano essere interpretate come discriminatorie.