Elio Vittorini: la cultura che non consola, ma protegge dalle sofferenze

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Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi sono messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino.

È l’incipit di Conversazione in Sicilia, una delle opere più famose di Elio Vittorini che fin da questo inizio svela la prosa intensa ed efficace dell’autore. Vittorini in quel romanzo mette tanto della sua Sicilia, pur avendo dichiarato che poteva essere qualsiasi luogo quello di cui stava parlando, mentre per tutta la vita di fatto vivrà lontano dalla sua terra natale. Milano sarà la palestra di vita di un autore che anche grazie al lavoro del padre, ferroviere e poi capostazione, potrà viaggiare molto e del viaggio farà una tematica fondamentale nelle sue opere.

Oltre a essere un abile romanziere, Vittorini è stato principalmente un giornalista e ricostruirne la carriera in un solo articolo è davvero impossibile. Ha preso parte anche alla Giulio Einaudi Editore, dirigendo la collana “I gettoni”, seppur a distanza, essendo sempre a Milano – motivo principale di piccoli contrasti con Cesare Pavese, torinese doc –. Il suo ruolo nella cultura del Novecento è preponderante. Qui ci concentriamo su due riviste in particolare che hanno costituito momenti fondamentali della sua vita: Il Politecnico e Menabò.

Durante il dopoguerra, gli intellettuali decidono di prendere in mano la cultura per promuoverla in nome di interessi non meramente economici, ma di crescita personale: è necessaria una nuova, illuminante, presa di coscienza, una “ricostruzione nazionale” che parte proprio dalle riviste. Tra queste Il Politecnico, in cui Vittorini militerà con un ruolo fondamentale fino ad allontanarsi dal PCI poiché, mentre all’inizio, come diversi intellettuali, immaginava potesse in qualche modo costruire una nuova cultura, viene deluso dalle eccessive ingerenze della politica nella cultura. Influenzato da Sartre e dalla sua rivista “Les Temps Modernes”, Vittorini pone al centro della sua attività proprio l’impegno propugnato attraverso una cultura che non sia neutrale e semplice consolazione dei mali, ma attivamente presente nella vita degli uomini.

Il problema esistenziale cozza però presto con gli interessi di Partito. In un celeberrimo articolo presente nel primo numero del Politecnico, infatti, Vittorini parla di una nuova cultura (che è anche il titolo dell’articolo): Non più una cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini. Per fare ciò, la cultura deve essere libera da qualsiasi condizionamento anche politico. Per Vittorini gli intellettuali non devono suonare il piffero per la rivoluzione, frase che lo scrittore siciliano milanese d’adozione scrive in una lettera indirizzata proprio a Palmiro Togliatti sul Politecnico.Chiaramente lo scrittore non voleva separare nettamente cnultura e ideologia, bensì sancire la libertà assoluta della letteratura da condizionamenti esterni e vederla, come farà anche Italo Calvino, come una continua ricerca autonoma.

Ed è proprio con Italo Calvino che nel 1959 fonda la rivista Menabò, sul modello dell’Officina di Pier Paolo Pasolini. Al centro della poetica dell’Officina pasoliniana, oltre al rifiuto del “Novecentismo” (tradizione lirica e letteraria del novecento) vi è soprattutto la presa di distanza da qualsiasi influenza politica e da visioni ideologiche preconfezionate, contro le quali il Pasolini Corsaro si è del resto sempre battuto. Si recuperano modelli precedenti al Novecento, come Pascoli, per sperimentare nuovi stili e nuove idee. Per la prima volta una rivista prospetta un intellettuale simile a quello che Vittorini aveva voluto parlando di nuova cultura: fuori dal mondo del partito e del tutto indipendente. La rivista Menabò prende ispirazione da tutto ciò e già dal suo nome, scelto proprio da Vittorini, mostra l’enorme superiorità della cultura rispetto a tutto il resto: menabò significa “mena buoi” in dialetto lombardo e indica il modello di stampa in tipografia a cui si devono aggiungere articoli, foto, disegni, ecc.

Mentre il mondo tecnologico si sviluppa, l’intellettuale cosa deve fare? Vittorini rimprovera già nella premessa del primo numero di Menabò una crisi della letteratura dovuta all’incapacità di riorientarla proprio in funzione della nuova società industriale. Il Menabò 4 nasce proprio dalla volontà di operare tale denuncia:

Allora è di grido di allarme il senso che può avere questo Menabò 4? […] è innegabile che la letteratura, in confronto alla trasformazione grandiosa e terribile che avviene nella realtà intorno a noi e in ogni nostro rapporto con essa, risulta nel suo complesso storicamente più arretrata non solo della sociologia neomarxista e di alcune tecnologie […] ma anche di attività artistiche.

Riconoscere questa incapacità per riaffermare un primato della cultura non significa, per Vittorini, chiudere le porte al progresso ma vivere sostanzialmente come uomini consapevoli. Italo Calvino con la sua “sfida al labirinto”, che esprime proprio nel saggio omonimo pubblicato sul Menabò, mostra come di fronte all’impossibilità di conoscere tutto del mondo l’uomo debba non farsi spaventare dal fascino sublime che il labirinto suscita, ma neppure temere di starvi dentro.

Da una parte c’è l’attitudine oggi necessaria per affrontare la complessità del reale, rifiutandosi alle visioni semplicistiche che non fanno che confermare le nostre abitudini di rappresentazione del mondo; quello che oggi ci serve è la mappa del labirinto la più particolareggiata possibile. Dall’altra parte c’è il fascino del labirinto in quanto tale, del perdersi nel labirinto, del rappresentare questa assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo. Nello sceverare l’uno dall’altro i due atteggiamenti vogliamo porre la nostra attenzione critica, pur tenendo presente che non si possono sempre distinguere con un taglio netto (nella spinta a cercare la via d’uscita c’è sempre anche una parte d’amore per i labirinti in sé; e del gioco di perdersi nei labirinti fa parte anche un certo accanimento a trovare la via d’uscita) In questo labirinto sembra che Vittorini si sia sempre mosso egregiamente, non cercando banalmente vie d’uscita ma ulteriori pareti che costruissero la grande dicotomia tra letteratura e realtà che cercava sempre di vincere.

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