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Andrea Catizone è avvocata, specializzata in diritto di famiglia, della persona e dei minori. Giurista e studiosa, ha approfondito le tematiche relative ai diritti umani e alle minoranze, in particolare modo quelle che riguardano il ruolo della donna e dei minori. Ha conseguito il titolo di Dottoressa di ricerca presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Ha fondato e diretto l’Osservatorio sulle famiglie; è membro del Comitato Media e Minori presso il Ministero per lo Sviluppo Economico, collabora con l’Università della Sapienza e svolge attività di studio, in quanto riconosciuta esperta, per le istituzioni; è docente a contratto; è responsabile nazionale del Dipartimento Pari Opportunità di Ali Lega delle Autonomie Locali e Vice-presidente del Centro Consumatori Italia. Andrea è anche opinionista per diverse trasmissioni televisive e radiofoniche ed editorialista in quotidiani e riviste nazionali.
È la Presidente di Family Smile, che si occupa della tutela dei diritti dei minori e delle persone svolgendo un’intensa attività di ricerca e di analisi delle dinamiche individuali e sociali che ne determinano il contenuto e l’espressione.
Avvocata Catizone, nel 2013 rilasciò un’intervista ad Affari Italiani e le fu chiesto se il suo matrimonio con un «uomo famoso e importante» fosse un vantaggio o uno svantaggio e lei rispose che «in una società maschilista come la nostra questo può diventare anche un limite perché è molto facile essere definita e riconosciuta come “la moglie di”. È difficile costruire una propria identità. Molti fanno fatica a pensare che io abbia una mia personalità e questo è parecchio fastidioso vista la fatica che ho fatto a conquistare la mia professionalità e cultura». Nella puntata dello scorso 23 maggio a Non è l’arena un giornalista l’ha accusata di essere ospite del programma condotto da Massimo Giletti solo perché «moglie di». Sono passati otto anni da quell’intervista dove dichiarava quanto fosse difficile costruire la propria identità in una società maschilista, non trova che nonostante la (quasi) decade passata il nostro Paese conservi ancora quel retaggio e a questo proposito le chiedo se secondo lei arriverà quel giorno dove la si riconoscerà per il suo più che invidiabile curriculum e non per la sua vita privata e quali sono i passi che dobbiamo ancora compiere in tal senso?
La sua domanda mi offre l’occasione per affrontare un tema che mi sta particolarmente a cuore che è l’autonomia delle donne. Nel nostro paese prevale ancora la concezione arcaica per cui la vita di una donna sia sempre legata a quella di un uomo: il padre, il marito, il partner. Si fa molta fatica ad accettare il talento femminile come il frutto di un impegno personale di una donna e vengono disconosciuti i risultati che arrivano solo grazie allo studio, alla dedizione, alla serietà con la quale si affrontano le varie sfide della vita. L’idea che una donna debba sempre essere il risultato di una decisione maschile, di un rapporto con un uomo, di un compromesso con il genere maschile è arcaica e rinnova uno stereotipo fastidioso e spesso si riscontra in alcuni sguardi, non solo maschili purtroppo che ti rivolgono quando in certi contesti. Questa concezione getta discredito anche in una parte degli uomini, perché esistono dei mariti che credono nelle capacità della propria moglie, compagna, partner e la sostengono lealmente anche se sono persone che hanno rivestito o rivestono un ruolo importante nella società. Svela una modalità di interpretare le relazioni affettive come se al loro interno si manifestasse sempre un gioco di potere: chi è il più forte e chi comanda e decide la vita di una donna. Per quanto mi riguarda cerco di essere sempre preparata anche quando vado in televisione, studio il caso che si affronterà, leggo le sentenze sulla materia e cerco di approfondire come se dovessi fare un parere legale perché credo che la televisione sia uno strumento straordinario per mettere in luce le competenze o le incompetenze. Lì le parole hanno un peso specifico importante e se non sai nulla puoi essere la moglie del presidente della repubblica, ma fai una figura pessima e i telespettatori oggi sono in grado di giudicare in maniera anche severa. Ho superato un esame di stato per essere avvocato dopo la laurea in giurisprudenza nell’Università di Torino in procedura penale e poi sono diventata Dottore di Ricerca in una delle università più prestigiose del mondo che è l’Alma Mater Studiorium di Bologna. Ma è l’impegno quotidiano per la mia professione che amo moltissimo che mi fa sempre stare sui libri ad imparare.
Se potessimo riassumere la sua vita accademica e lavorativa si potrebbe dire che lei ha dedicato il suo tempo per la tutela della famiglia. Non di quella che è stata definita più volte dallo stereotipo come «la famiglia tradizionale» bensì di quella alla cui base vi sono i rapporti più significati per ciascun essere umano. «La famiglia come luogo fisico e simbolico che condiziona, in maniera determinante, il nostro modo di essere, di vivere e di costruire le relazioni tra umane; una famiglia che è oggetto di un’evoluzione senza precedenti e la cui identità e struttura superano i confini stabiliti dal dettato normativo» così l’ha definita tramite la sua Associazione Family Smile. Come ha dimostrato tramite la ricerca DIAGNO//CLICK pubblicata proprio sul sito dell’Associazione, le generazioni più giovani tendono a ricercare i loro dubbi adolescenziali su Internet evitando quindi quel «luogo fisico» della famiglia spesso vista come nemica dell’adolescente. Le vorrei chiedere, a fronte del suo lavoro nonché della sua carriera accademica, quali sono i rischi di questa modalità di apprendere le informazioni e come si può cambiare questo sistema che vede le famiglie sempre più lontane dalle nuove generazioni?
Esiste un gap tra la generazione dei genitori ed i figli che è fisiologico. Oggi poi che l’età dei genitori si è molto spostata in avanti e che la società corre molto in fretta si deve aggiungere la grande difficoltà da parte del mondo degli adulti a comprendere i giovani. Spesso vi è anche un atteggiamento paternalistico verso le giovani generazioni, si chiamano impropriamente minori… come se fossero inferiori, invece si dovrebbe usare il termine minorenne che anche terminologicamente stabilisce una relazione diversa tra le varie età anagrafiche. Il web ha indubbiamente un ruolo prevalente nella vita dei ragazzi e delle ragazze, per loro fa parte di una modalità di relazionarsi anche per le cose più intime e sentimentali: a volte le relazioni nascono e finiscono solo con messaggi senza mai essersi neanche sfiorati. Non dobbiamo giudicare o scandalizzarci per questi comportamenti, le società si evolvono moltissimo e in maniera trasversale: non solo nel tempo, ma anche nello spazio. Oggi non ci sono più i confini geografici e i gusti musicali di un ragazzo o ragazza europeo sono gli stessi di un ragazzo o ragazza coreani, australiani o africani. C’è una grande ricchezza di “informazioni” che circolano senza sosta e senza tregua nel movimento perpetuo del web creando mode, convinzioni, identità. Dobbiamo prima di tutto essere consapevoli di questo per capire il fenomeno e poi affrontarlo in maniera adeguata, invece spesso parliamo a sproposito, noi adulti, di quello che fanno i giovani nel web, perché non lo sappiamo neppure noi. Fatta questa premessa è altresì vero che i giganti del web non possono essere liberi di agire senza regole o senza prescrizioni di alcun tipo. Serve dunque una ferma volontà da parte di chi ha responsabilità di governo nazionale o internazionale di tutelare i diritti fondamentali degli esseri umani ed in particolare dei minorenni per la fase delicata che vivono e per la loro esposizione a fenomeni che possono influenzare anche negativamente la loro esistenza. Per questo non basta individuare dei reati, ma occorre arrivare alle sanzioni appropriate, alla regolamentazione di quello che entra nel contenitore e prima che entri perché poi è impossibile controllare. Servono dei filtri in entrata e la tecnologia oggi c’è tutta per attuare queste reti di protezione.
Questa rubrica originariamente doveva spiegare le dinamiche dell’«educazione sessuale» ma questo nome può risultare fuorviante poiché l’educazione sessuale in ambito di prevenzione alle malattie sessualmente trasmissibili, nonostante la disomogeneità è presente nelle scuole italiane. Ciò che invece questa rubrica vuole sottolineare è la necessità di un’educazione ai sentimenti che educhi al rispetto reciproco, al consenso, all’uso corretto dei social media e soprattutto alla normalizzazione del tema del sesso senza la paura del giudizio. Temi che risultano i grandi assenti del piano formativo per gli studenti. Studenti che sono più che presenti nei gruppi Telegram (spesso anche a gestirli) per diffondere materiale pedopornografico senza conoscere i rischi o peggio ancora incuranti delle conseguenze: trova che vi sia correlazione tra la mancanza di educazione sessuale e i reati di violenza di genere (tra cui il citato Revenge Porn)?
Se mi avesse fatto questa domanda qualche tempo fa le avrei risposto che non sono favorevole all’educazione sentimentale nelle scuole, ma oggi invece sono convinta che ci sia bisogno di un percorso di conoscenza in questo senso che possa aiutare ad avere più consapevolezza di quanta questa libertà apparente riesce a creare. Oggi i giovani sembrano crescere in un mondo in cui tutto è possibile, dove non ci sono delle frontiere di nessun tipo e dove ci si può spingere senza conseguenze. Invece i dati sul malessere e le insicurezze che affliggono il mondo giovanile dimostrano che quella situazione non è in grado di generare benessere, ma al contrario crea paura e malessere. Se un bambino cresce senza regole l’effetto non è quello di dargli più libertà, ma di accrescere la sua insicurezza perché non ci sono i confini entro i quali costruire la propria identità. dunque anche nel campo della “sessualità” grande tabù della società contemporanea si dovrebbe avere la possibilità di un confronto aperto con chi ha delle competenze in materia che possa fornire le nozioni basilari sulle quali ciascuno fonda le proprie convinzioni. Mi rendo conto che è un terreno molto vischioso e non neutro e dunque mi interrogo anche io su quali dovrebbero essere le competenze dei soggetti che parlano ai giovani e se forse non fosse il caso di accompagnare questi soggetti con coetanei per un passaggio di informazioni peer to peer. Su questo tema mi riservo di approfondire meglio, ma il fatti di cronaca degli ultimi tempi, compresi gli stupri di gruppo hanno scalfito la mia granitica convinzione che il tema non dovesse essere affrontato.