In una realtà come quella attuale, dove la vita e la morte delle attività commerciali è sempre più oggetto delle attenzioni normative di qualsiasi Stato, non si può non porre l’attenzione se non su uno degli istituti giuridici che in Italia mai ha ricevuto la giusta attenzione.
Questo, dovuto alla scarsa qualità della normativa redatta, la quale si rileva essere in molti casi in contrasto con sé stessa e incapace di fornire risposte a dei semplici interrogativi logici, ha portato i titolari delle attività commerciali italiane, a non prenderlo minimamente in considerazione nel momento del bisogno.
L’istituto giuridico in parola è Il Patto di Famiglia, il quale, nonostante quanto appena affermato, persegue uno degli scopi più nobili e legittimi, in funzione di quello che è l’inevitabile termine al quale ognuno di noi va in contro; la morte. Lo scopo di questo istituto così maltrattato e relegato nel dimenticatoio da chiunque, tranne da coloro che nello studiarlo hanno cercato e cercano tutt’ora di porre rimedio a quelle lacune, è quello di conservare l’integrità del patrimonio lasciato dall’imprenditore mortis causa. Patrimonio che, se sottoposto al classico regime di successione (legittima o testamentaria), verrebbe frantumato; rischiando probabilmente di far cessare quelle attività commerciali che non solo sono state istituite con notevoli sacrifici, ma intorno alle quali orbitano interessi enormi, sia nel numero che nella valenza. Basti pensare a tutti i dipendenti che vivono con il salario che questa gli fornisce, oppure basti pensare a coloro che forniscono beni e servizi necessari al ciclo produttivo della stessa e così via. Pertanto, la salvaguardia delle imprese non può essere un qualcosa rimessa alla sola lungimiranza dell’imprenditore il quale, esclusivamente con le proprie conoscenze e le proprie capacità, dovrebbe andare a porre rimedio all’incapacità dello Stato nel fornire strumenti idonei per colmare le suddette lacune.
La frammentazione delle imprese o delle quote societarie, tanto temute se sottoposte al normale regime successorio, deriva dal fatto che non tutti gli eredi dell’imprenditore, il più delle volte, godono di una naturale compattezza familiare e predisposizione manageriale. Così, ciò che si è voluto dare, tramite un contratto che vede tutti i membri della famiglia come contraenti, è la possibilità all’imprenditore di designare a tempo debito il colui erede che tra tutti, succederà nella figura di imprenditore, garantendo ai non assegnatari, un equo compenso come conditio sine qua non versato dal beneficiario del Patto.
Il problema nasce nel momento in cui altri eredi potrebbero sopravvenire, ad esempio come figli futuri o nuove nozze dell’imprenditore, perché la normativa, nel momento in cui parla di questo equivalente, prevede che colui che non ha partecipato al contratto, senza definire se per impossibilità o volontà di non prendervi parte, può esercitare azione di collazione o riduzione dell’eredità o chiedere l’equivalente a lui spettante, con gli interessi maturati fino a quel momento. Il tutto, generando esclusivamente incertezza nella vita di coloro che sono stati i beneficiari del patto, e quindi gli assegnatari dell’azienda o delle quote societarie, in quanto si ritroverebbero a vivere nella posizione di eterni potenziali debitori.
Dunque, queste sono le criticità di un tale istituto dallo scopo così importante e, nonostante tanti studi siano stati condotti per portarle in evidenza a chi avrebbe potuto, nulla è stato fatto, se non quello di abbandonare gli imprenditori ad avvalersi di strumenti esterni al suolo italiano, come ad esempio il Trust che trova applicazione solo tramite l’impiego e il riconoscimento di norme esterne, da parte del nostro ordinamento.