Mentre tutti gli occhi del Mondo sono puntati su una possibile quanto complicata risoluzione del conflitto russo-ucraino, una guerra silenziosa si sta combattendo in Africa orientale, precisamente in Congo, un conflitto cruento che si insinua in un Paese già sofferente economicamente e poco stabile da un punto di vista politico. Si tratta di una emergenza che sta prendendo le chiare sembianze di una crisi umanitaria, le cui radici risalgono a circa 30 anni fa, con dinamiche note ma motivazioni, evidentemente, irrisolte.
A fine gennaio, Goma, città chiave del Congo orientale, vicina al Ruanda, è stata assaltata e conquistata dal gruppo dei ribelli M23 (Movimento del 23 marzo) con conseguente esodo forzato della popolazione: parliamo di oltre 400.00 mila sfollati soltanto negli ultimi mesi – ed oltre 7 milioni di morti (dichiarati) negli ultimi 20 anni. Ma l’assalto è proseguito verso sud: i ribelli hanno raggiunto e conquistato Bukavu, poi Uvira, la seconda città della provincia del Sud Kivu, sulla punta settentrionale del lago Tanganika, a pochissima distanza dalla frontiera con il Burundi e con la sua capitale economica Bujumbura. Una avanzata che semina terrore e distruzione, con uno schema che appare consolidato: spari, bombe sulle case ed uccisioni di uomini, donne e bambini,con soldati mercenari mischiati ai ribelli che uccidono, stuprano, saccheggiano e seminano paura. La caduta di Goma, che di fatto sancisce l’appropriazione di uno dei territori più ricchi del Paese e del continente in fatto di coltan e cobalto, ha provocato fortissime proteste a Kinshasa, capitale della Repubblica congolese, contro le ambasciate: quella del Ruanda è stata addirittura data alle fiamme poiché accusata – nel vero – di foraggiare i ribelli, mentre quelle di Francia, Belgio e Stati Uniti sono state accusate di lassismo nei confronti del Ruanda. Il nostro ministro degli esteri Tajani conferma che quella italiana non risulta coinvolta. Intanto la Germania ha deciso unilateralmente di fermare gli aiuti allo sviluppo previsti per Khigali.
Ma la comunità internazionale non ne parla, la strage resta silente. Troppi, molti gli interessi in una terra ricchissima di risorse primarie, specialmente di coltan e cobalto, fondamentali per l’utilizzo in tecnologie ed auto elettriche. Edunque continuano ad uccidere i ribelli del Movimento 23 marzo (M23) gruppo formato nel 2012 e noto anche come Esercito rivoluzionario congolese sostenuto dal “vicino” Ruanda nella lotta per la conquista del Congo. Ma in realtà dietro all’appoggio del Ruanda ai ribelli dell’M23 c’è una complessa rete di dinamiche geopolitiche oltre che di interessi interni al Paese Africa, anche – e specialmente –internazionali.
Perché non se ne parla e come è iniziato il conflitto
La regione ad est della Repubblica democratica del Congo è il quartier generale del movimento dei ribelli, supportati dal Ruanda ma anche da piccole bande di dissidenti e mercenari che non fanno altro che instillare ancor più destabilizzazione in un Movimento di ribellione che di organizzato non ha nulla. Oltre allo scopo primario del tentativo perpetrato – da 30 anni orsono – di portare alla caduta l’attuale governo congolese, si giocano rivalità etniche e guerriglie civili che generano ancor più instabilità e confusione in un territorio massacrato da una irrisolta ed atavica vulnerabilità economica e politica.
Gli interessi internazionali sono molteplici, talmente presenti da riuscire a mettere in secondo piano accadimenti che da guerre civili, attuate da anni, stanno assumendo una connotazione emergenziale, fatta di popolazioni sfollate, comunità distrutte, città e villaggi capitolati sotto le mani di mercenari assoldati da qualsivoglia addendum locale. Al momento i ribelli, che entrando nelle comunità si presentano come “liberatori” dal governo locale, “hanno tenuto riunioni con i capi quartiere e i referenti delle strade, mandandoli a dire alla popolazione che chi non rispetta le nuove autorità, chi rifiuta di fare il salongo (il lavoro comunitario settimanale gratuito imposto dalle nuove autorità come si fa in Rwanda, ndr), chi applaude o nomina le autorità di Kinshasa sarà ucciso. Dicono che non hanno prigione e lo vediamo, se prendono un ladro lo uccidono a bruciapelo. La settimana scorsa un giovane, vedendo l’M23, aveva gridato ‘i congolesi rimarranno sempre congolesi’ ed è stato ucciso all’istante, in pieno giorno. A ciò si aggiungono gli omicidi notturni che non sappiamo a chi attribuire. L’M23 non svolge indagini”, ha dichiarato una fonte al Guardian. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa fa quel che può, assemblando i corpi fuori dagli ospedali ormai pieni, mentre né Kinshasa, la Cpitale della Repubblica del Congo, né i Caschi Blu della Monusco (Missione Onu per la Stabilizzazione del Congo, missione di peacekeeping presente dal 2000) hanno protetto effettivamente la popolazione, mentre i gruppi militari appaiono rinforzati sempre di più dall’appoggio ruandese. Sembra che la comunità internazionale resti a guardare, non per imperizia ma per consapevole inerzia, alimentando di fatto l’azione del Ruanda che mira ad estendersi al vicino Congo e dove per ora è dunque riuscita a “piazzare” i suoi ribelli.
Da quando, a fine gennaio, il conflitto si è intensificato, non è stata effettuata, come invece prevede il protocollo Onu, una de-escalation né tantomeno un intervento umanitario e nemmeno ci sono stati tentativi di riconoscere le cause sistemiche dello stesso, così come le concause, difficili da disinnescare e da arginare. D’altro canto si parla di una zona, quella ad est del Congo, densamente popolata e priva di servizi e di una amministrazione degna di nota, in un’area geografica i cui confini sono stati circoscritti durante la Conferenza di Berlino del 1885 senza considerare etnie, culture ed appartenenze, una bomba ad orologeria scoppiata già a partire dagli anni ’70 nella zona dei “grandi laghi”, con la disputa eterna tra gli hutu del Burundi e quelli del Ruanda (a memoria, il genocidio degli Hutu nei due Stati citati). Ma il fatto più eclatante, da cui scaturirono le due “guerre mondiali africane” fu, nell’aprile del ’94, la caduta dell’aereo in cui volavano il presidente burundese Ntaryamira e quello ruandese Habyarimana e che provocò la caccia ai tutsi, agli hutu moderati e a tutti gli oppositori, con un esodo della popolazione mai visto prima e che ha lasciato ancora oggi le tracce in Ruanda, che discolpa qualsiasi incursione in Congo per giustiziare l’avvenimento.
Dal 1996 al 2003 si sono combattute la prima (1996-97) e la seconda “guerra mondiale africana” (1997-2003), in cui Congo e Ruanda si sono scontrati frontalmente coinvolgendo molti Paesi africani come alleati, da una parte o dall’altra, ma in realtà con le spalle coperte dagli schieramenti occidentali ed il conflitto, da “etnico” si è trasformato in una guerra di conquista del Ruanda sul Congo, essenzialmente per il controllo delle risorse del sottosuolo. Il Ruanda è governato da un solo uomo, Paul Kagame, un ufficiale formatosi negli Stati Uniti, prima vicepresidente (94-2000), poi presidente e rieletto, per la quarta volta, lo scorso anno (con il 99,18% delle preferenze), personaggio che governa (leggi controlla) il suo Paese con un apparato di sicurezza capillare ma che paradossalmente spesso i Paesi occidentali decantano come esempio di sviluppo in Africa, trascurando la mancanza di libertà interna e lo sfruttamento esterno perpetrata dallo stesso.
La situazione ad oggi
La guerra si è fortemente acuita dopo l’ultima offensiva dei ribelli nelle regioni del nord e sud del Kivu, zona che si estende intorno al lago omonimo, dove già prima di gennaio si parlava di 4,6 milioni di sfollati su 7 milioni di abitanti del paese. L’M23 ha occupato la miniera di Rubaya, il più grande giacimento al mondo di coltan, dove ha instaurato un’amministrazione parallela dedita allo sfruttamento e all’esportazione diretta dell’“oro nero” verso il Ruanda. Eventuali risoluzioni sono al momento molto complicate: una crisi sanitaria ed alimentare ormai conclamata ed aggravata da 30 anni di conflitto alle spalle, su un continente, come quello africano, in cui piccoli gruppi di vario genere ed etnia lottano da sempre per pezzi di territorio o per contrasti etnici ed ideologici, non hanno fatto altro che far degenerare una situazione che, in realtà,poteva presumibilmente essere considerata già in escalation. Parliamo di un mosaico identitario molto complesso, in cui le estrazioni minerarie celano attori fortemente interessati (Stati e società, fra cui la Cina e società cinesi ma anche l’Unione europea, che di recente ha stipulato un controverso pre-accordo con il Ruanda per lo sviluppo delle catene del valore delle materie prime, di cui in molti ora chiedono la sospensione) in un continente, quello africano, in cui andrebbero rivisti i confini, sempre parzialmente definiti e definibili, in cui la difesa dell’appartenenza etnica e culturale della popolazione è fondamentale per la vita e lo sviluppo, in cui servirebbe piuttosto un intervento occidentale mirato ad investire in sostegno e sviluppo, che possa accompagnare i singoli Stati verso una stabilità, in primis, politica. Ma le interferenze esterne sono troppo significative.