Dopo il desolante esito della votazione di domenica 12 giugno, l’istituto referendario merita un ulteriore approfondimento e qualche considerazione di carattere generale.
Un’astensione dal voto dell’80 per cento dell’elettorato non può non suscitare stupore nel senso più deteriore del termine, neppure da parte di chi, come chi scrive, non ritiene di condannare tout court la scelta di chi si astiene dal voto. Infatti, se la Carta Costituzionale prevede la necessità del quorum dei votanti (50 per cento) implicitamente legittima l’astensione dal voto come forma di strategia politica tesa a vanificare la volontà abrogativa dei promotori del referendum. D’altronde l’art. 48 della Costituzione che definisce l’esercizio di voto come “dovere civico” pare riferirsi solo al voto politico e amministrativo, tant’è vero che l’art. 75, in tema di referendum, sancisce: “Hanno diritto (e non dovere) di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati.”
Ma il problema, nel caso recente, è un altro: non si può ritenere che 80 elettori su 100 si siano astenuti per esercitare quella forma di strategia che, ripeto, va considerata legittima, ma che l’abbiano fatto per disinteresse, scarsa informazione o altre motivazioni tutte meritevoli di disapprovazione. In altri termini abbiamo assistito all’ennesima, e particolarmente eclatante, dimostrazione di disinteresse per la politica e quindi per la cosa pubblica in generale.
Alla luce delle recenti esperienze, e di quest’ultima in particolare, l’istituto referendario previsto dall’articolo 75 della Costituzione va ripensato, pur sapendo quanto sia lastricata di ostacoli qualsiasi modifica del testo costituzionale.
Certamente la via corretta non è l’abbassamento del numero delle firme necessarie -. oggi 500.000 – per proporre un referendum. Assisteremmo alla proliferazione di proposte referendarie, alcune della quali realmente di scarso interesse e di scarsa rilevanza, tali da rendere comprensibili forme di astensione dal voto sempre più massicce.
Neppure l’abolizione della previsione del quorum sarebbe auspicabile. Si rischierebbe di vedere abrogate norme votate dal Parlamento – con tutte le procedure e le garanzie previste dalla Costituzione – per effetto della volontà espressa da una sparuta minoranza di cittadini.
Alle suddette criticità non pare esservi rimedio attuabile in tempi brevi: solo l’insorgere di un più consapevole atteggiamento dell’elettorato tale da eliminare la piaga dell’astensione massiccia potrebbe rivitalizzare l’istituto referendario. Ma questo è un problema di carattere sociale e culturale che nessuna legge è in grado di risolvere dall’oggi al domani.
Ma l’istituto referendario soffre di un’ulteriore intrinseca criticità rappresentata dal suo carattere puramente abrogativo. Talora l’eliminazione di una norma di legge senza la simultanea entrata in vigore di altra norma che la sostituisca e la integri può risultare ancora più dannosa della permanenza in vigore della norma abrogata. Questo spiega taluni interventi con cui la Corte Costituzionale ha negato l’ammissione di questo o quel referendum.
Viceversa un istituto di scarsa applicazione che, se migliorato nella sua struttura, potrebbe contribuire validamente a una maggiore partecipazione democratica dei cittadini è la legge d’iniziativa popolare prevista dall’art. 71, 2° comma della Costituzione, a norma del quale “Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli.”
Qualora la previsione costituzionale (previo eventualmente un congruo aumento dell’esiguo numero dei proponenti – oggi di 50.000 – teso ad evitare un’eccessiva proliferazione di proposte che il Parlamento avrebbe difficoltà a gestire) fosse accompagnata da un preciso obbligo di calendarizzazione e discussione in sede parlamentare delle proposte si otterrebbe un efficace metodo di partecipazione dei cittadini alla formazione delle leggi, e quindi alla vita democratica, senza togliere prerogative al Parlamento e, quindi, senza rischiare i deprecabili effetti della democrazia diretta.