C’è una parola che mi ronza in testa da quando so di dover scrivere un resoconto della mia prima esperienza al Salone del Libro di Torino: questa parola è agorafobia, la paura degli spazi aperti, grandi e affollati. Ho deciso subito che sarebbe stat una traccia letteraria interessante da seguire, considerando che il Salone è quanto di più si possa arrivare vicino, al giorno d’oggi, a un’agorà; sia se la intendiamo come “piazza del mercato”, sia come luogo dove la cultura e il dibattito fiorisce.
Mi sono chiesto in che modo potessi parlare di un evento come questo, con un numero di affluenze di oltre 168.000 persone (un record), centinaia di conferenze e presentazioni su ogni argomento, apparizioni di autori di spicco e di celebrità nazionali; e, soprattutto, come potessi farlo in modo originale, dicendo qualcosa di acuto che va al cuore di ciò che (per me) è tutto questo.
Da neofita della fiera ho vagato, invisibile, zaino in spalla, sotto un increscioso sole di maggio; sono rimbalzato da un padiglione all’altro per più stand possibili, dalle piccole esposizioni editoriali spiritualiste new-age contro-culturali a le colossali simil-librerie di Feltrinelli o Mondadori.
Da lettore medio contemporaneo, abituato alle grandi catene e al mercato online, ho schivato, con una certa quantità di disagio, gli esuberanti venditori pronti a fermare i passanti per dar loro un segnalibro (diciamo, una forma editoriale di volantinaggio) e raccontare i libri del loro catalogo, ignorando il suddetto disagio altrui a testa alta. Ho fatto difficoltà a distaccarmi dai lauti e rassicuranti scaffali dello stand di Libraccio, che offriva il 50% di sconto su tutto, per quanto abbia cercato di mantenere una mente aperta a prescindere dalle garanzie dei brand e dalla eleganti vesti grafiche (anche perché, mi sono detto, sostenere la piccola editoria è una buona causa, una forma non pietosa ma intellettuale di beneficenza).
Da aspirante giovane scrittore, che teme di perdere l’attributo ‘giovane’ ma non l’attributo ‘aspirante’, l’esperienza mi ha un po’ sopraffatto emotivamente. E’ stato proprio quando sono tornato a casa e mi sono messo a scrivere che mi sono reso conto di quanto fosse ironico e pungente questo mio cercare un’idea unica e originale di descrivere il Salone, un’esposizione dove migliaia di scrittori e editori cercano di venderti le proprie idee uniche e originali. La sopraffazione emotiva, l’agorafobia di trovarsi nel bel mezzo di forze creative e artistiche intense, di voci letterarie ambiziose e avide di riconoscimento quanto la mia.
Se a qualcuno questa sensazione potrebbe risultare normale, fisiologica, per qualcun altro potrebbe sembrare un’immatura, narcisistica frustrazione per lo stato delle cose. Tutti quanti sognano di essere speciali; chiunque si dedichi all’arte è cresciuto con la speranza di poter rivendicare questo aggettivo per se stesso. E la speranza, come diceva un certo scrittore, è una forma addomesticata di desiderio. In un mondo editoriale come questo, abbiamo modellato il nostro desiderio di essere noi stessi sugli scaffali alti delle grandi librerie, con la veste editoriale dei nomi più importanti, quelli che magari abbiamo noi stessi ammirato; ma poi, crescendo, dovremmo esserci resi conto che niente ci viene effettivamente dato di diritto. Di fatto siamo soltanto piccole gocce in un oceano. Dobbiamo guadagnarci questa visibilità e questo riconoscimento.
In questo, la piccola editoria è salvifica, poiché da sbocco e respiro a tutte quelle voci artistiche che, vuoi per un motivo o per un altro, non sono state valorizzate. Senza di esse, la via per la pubblicazione tramite le grandi case editrici — a cui ogni anno timorati autori sconosciuti mandano i propri manoscritti come si mandano lettere al pontefice — assomiglia un po’ ad un gigantesco imbuto, dove un largo bacino di creazioni, denso e soffocante, deve scendere e fuoriuscire da una piccola imboccatura e non è scontato che ci riesca, considerando che ogni giorno, dall’empireo delle menti, dallo Zeitgeist, piovono sempre nuovi candidati. Solo alcuni fortunati (asterisco sul fortunati) passano la prova del travaso, e la bellezza di questa molteplicità di vie sta proprio nel sollevarci, in un certo senso, dall’incubo di doverci confrontare con una sorte che potrebbe inevitabilmente premiarci o condannarci, mentre il nostro super-io tenta di spingerci con la falsa idea di una ricompensa garantita. E’ confortante vedere i volti umani degli editori e la loro passione per il tramandare storie non ascoltate su carta e inchiostro.
Tuttavia, non penso sia giusto negarci anche soltanto il pensiero di sentire unici, né sarebbe giusto fustigarci per desiderare qualcosa che, seppure irrealistico, è stato reso desiderabile dal mondo in cui viviamo.
Vedete, per quanto un evento di esposizione editoriale popolare come questo sia un grande momento per la cultura e la letteratura nostrana, una grande opportunità di aprire le vie per nuove strade di espressione e di pensiero, il suo risultato ultimo è un po’, paradossalmente, quello di lasciare esattamente le cose come stanno.
Ho formulato questa ipotesi vagando fra i quattro padiglioni, adocchiando l’entusiasmo con cui editori alternativi spiegavano il proprio catalogo a potenziali compratori e l’annoiato disappunto di espositori seduti su sedie dietro stand vuoti. Una interminabile fila di persone in attesa di farsi dedicare una graphic novel di un certo arcinoto fumettista (che non si sa come sia sopravvissuto per tutta la durata del Salone), in concomitanza ad autori e rivenditori rimasti in attesa che qualcuno elemosinasse loro attenzione. Non c’è niente di male nell’avere successo, né nell’avere insuccesso, ovviamente, ma un effetto involontario di questa eterogeneità, di questa concomitanza fra grandi e piccoli nomi, è che la disparità viene confermata pubblicamente. Sì, è altamente probabile che almeno la metà delle persone siano tornate a casa con un libro o un prodotto di una casa editrice che non conoscevano e, magari, questo genererà un passaparola promozionale inaspettato; la visibilità, si sa, genera opportunità. Ma io vorrei sostenere che invece è proprio l’esistenza astratta di questa opportunità che in qualche modo mantiene la piccola editoria piccola e la grande editoria grande, perché suggella l’egemonia dei giganti, con i loro spazi d’esposizione in cemento nella sala stampa, e confina l’esistenza dei più inascoltati nei luoghi e nelle giornate dei saloni letterari, dove «anche loro possono guadagnarsi visibilità, finalmente»; l’opportunità che viene loro data sostituisce la possibilità.
L’editoria, così come ogni sistema di distribuzione di prodotti, si gioca sui grandi numeri, e questo cozza almeno un po’ con la nostra (o forse solo con la mia?…) concezione intellettuale di ciò che la letteratura significa per lo spirito umano. “Attenzione: leggere può provocare in-dipendenza”, recita scherzosamente un banner sopra uno stand. Ma siamo davvero indipendenti se partecipiamo a un rituale di mercificazione della letteratura che, sotto una veste di uguali opportunità, non mette effettivamente in discussione lo stato delle cose?
Dopo questa lunga kermesse nella città piemontese, possiamo dirci soddisfatti di aver aperto le nostre menti e di aver immagazzinato fatti e storie e mondi che non conoscevamo. I visitatori torneranno a casa con tanti nuovi libri (anche se si sa, comprare un libro spesso non equivale al leggerlo) e tanti nuovi spunti di riflessione sulla realtà. Gli espositori hanno avuto modo di promuovere con entusiasmo ciò che hanno da offrire, e fanno i bagagli portando in saccoccia i risultati dei loro sforzi di promozione; gli autori, in qualche modo, trovano soddisfazione nel poter eventualmente raccogliere da ciò che hanno seminato. Questa breve e intensa feritoia sulla moltitudine delle idee si chiude e tutti torniamo alla normalità. Ci potremmo dire soddisfatti… e se non lo siamo, possiamo ascrivere la nostra insoddisfazione all’aspetto aleatorio e volubile di questo vocabolo omertoso: opportunità.
Siamo tutti in gioco, costantemente, noi scrittori; in una sorta di tandem contraddittorio fra il preservare noi stessi e il nostro cercare di essere meno noi stessi possibili. Ci accapigliamo per quel piccolo spazio che ci viene concesso, e sublimiamo l’amarezza del nostro essere lasciati da parte in un entusiasmo e una forza di spirito ancora maggiore, finché non ce la facciamo più. Purtroppo, sentirci frustrati e soli, isolati e impotenti nella moltitudine, non è un sentimento che genera produttività; non ci rende buoni guerrieri, non ci permette di manifestare gratitudine per ciò che ci viene concesso.
Il motivo per cui scrivo tutto questo è che, ritengo, esiste un qualcosa di nascosto e di prezioso che possiamo trovare non ignorando e spingendo contro le avversità e la frustrazione ma, bensì, guardando questo negativo negli occhi, assimilando la sua lezione amara e concreta in noi stessi. Perché questo sentirci in balia di un mondo asserragliato e spietato, dove un sistema di caste alte e caste basse è alimentato dalla vaga opportunità di potervi sfuggire, non è qualcosa che andrà via per un bel po’. Per questo, confrontarci con la realtà editoriale del salone di Torino è immensamente prezioso. Da «giovane aspirante» scrittore, da mediocre e lento lettore, da illuso intellettuale segretamente ambizioso, ho fatto tesoro di ciò che ho provato: ho assimilato la tormentosa solitudine di chi non ha avuto ascolto e la catartica empatia di chi ha riconosciuto questi bisogni insoddisfatti negli occhi degli altri.
Ho riconosciuto in questa fiera le verità sociali e spirituali del nostro mondo.
Spero che questa riflessione vi abbia significato qualcosa. In caso non vi dicesse nulla, consideratemi come un altro fra i venditori di idee dietro uno stand del Salone; qualcuno che dichiara la propria offerta, e che voi ignorate o rifiutate con garbo, magari con un po’ di compassione, e a cui rivolgete un telepatico «buona fortuna» quando ve ne andate.