“Riderò la mia amara risata”
—Nicolaj Vasilievič Gogol’ –
Per ogni festività che compare sul calendario siamo portati a pensare che vi sia un unico significato prestabilito, la cui storia, ormai remota, non ci riguarda più di tanto, se non per curiosità occasionale. Eppure, dietro ogni ricorrenza che raramente sentiamo con lo stesso trasporto con la quale viviamo il Natale, l’Epifania, la Pasqua, spesso si nasconde un mondo intero, pronto a rivelarsi.
E’ il caso del Carnevale, ormai lasciato alle spalle senza troppa attenzione.
Abbiamo festeggiato tutti il Carnevale, almeno da bambini, fasciati nel nostri costumi da principessa e da pirata, sotto un vortice di coriandoli e di stelle filanti. Nonostante questo, raramente ci siamo chiesti cosa vi si celi dietro; se una festa tanto “inetta” rispetto alle altre —così fanciullesca e forse sciocca— potesse, nella sua follia ridanciana, insegnarci qualcosa.
Le origini del Carnevale risalgono a un tempo lontano, quando vere divisioni fra gli uomini, dovevano ancora stabilirsi. In quel tempo così arcaico, tra gli uomini delle tribù, stretti in una gerarchia mutevole quanto precaria, si usava fare ciò che spesso, oggi, ci si dimentica di fare: celebrare i momenti di passaggio; quei piccoli-grandi eventi della vita che, una volta accaduti, cambiano tutto. I primi passi di un figlio, l’arrivo delle piogge, la riuscita di una caccia, il matrimonio, la morte: le feste a carattere religioso-pagano, una volta, si confondevano agli eventi della vita di ognuno, senza alcuna gerarchia, senza santi ne patroni; senza ordine di importanza. Le celebrazioni ufficiali, semplicemente non esistevano. Ogni festa, ogni rito, aveva un carattere universale e, pertanto, era condivisa da chiunque. Tutto era Мир [mir] ovvero mondo; comunità, materia primigenia che, quel mondo, lo abitava.
Quando, in seguito all’evoluzione della civiltà, si è data ad essa un ordine statale gerarchico —capo, sacerdoti, popolo—, la disuguaglianza e le gerarchie hanno finito per riflettersi inevitabilmente su ogni manifestazione umana, perfino su quei riti una volta indifferenziati, ognuno con i propri caratteri, ma pur sempre importanti. Dapprima libere e senza ordine, alcune feste sono scivolate in secondo piano, quasi nell’ombra, lasciando alle feste diventate ufficiali, il posto d’onore.
La festa del raccolto non aveva più la stessa importanza della festa religiosa, così come non la avevano il germogliare della primavera, le prime piogge, le vittorie conseguite nelle piccole imprese quotidiane: le feste non ufficiali vennero messe da parte, relegate in un angolo. Ma non furono dimenticate. Esse, al contrario, quasi per una sorta di ribellione, assunsero un nuovo volto, diventando la forma parodica delle feste ufficiali. Si riempirono di una nuova essenza; un’essenza comica e irriverente, che le portò a rivendicare uno spazio tutto per sé: la piazza. Il luogo dove il popolo poteva ancora riunirsi, libero da ogni canone, da ogni regola, da ogni misticismo o rigida gerarchia.
Nacque il Carnevale: un evento-non evento, senza ordine o padroni.
Il Carnevale divenne il momento, in cui ognuno poteva essere chiunque volesse essere, anche solo per un giorno, dimenticando il proprio grado, perfino il proprio volto. Ciò che era bello diventava brutto, ciò che era sbagliato, giusto: tutto era alla rovescia, come se il mondo potesse essere visto finalmente da una nuova prospettiva. La maschera del Carnevale non serviva a nascondersi, ma ad annullare ogni differenza: la regina era una fornaia e il conte, un ciabattino. Per un unico giorno le differenze cadevano, e davanti a questa spaziante prospettiva era come se, dallo schiamazzare della piazza, sorgesse la possibilità di un mondo nuovo, un mondo altro: la vita parallela alla vita, e allo stesso tempo la vita stessa.
Quello che avrebbe potuto essere, quello che forse un giorno sarebbe stato, era sempre possibile.
Sotto questo segno, il Carnevale divenne concetto; assunse una prospettiva storica e, dalle forme popolareggianti di una sub-cultura, riuscì ad elevarsi fino ai vertici della letteratura: Folengo, Reblais, Gogol’… Il Carnevale divenne un luogo per artisti e, allo stesso tempo, rimase un luogo per tutti. Uno spazio metafisico irriverente e libero, in cui i se e i ma non esistono: esiste solo la possibilità.
Il critico russo Michail Bachtin definì il Carnevale come la festa del tempo, del divenire, delle cose che sono sempre attuabili, anche quando sembra impossibile viverle.
Le feste dell’antichità lo celebravano come momento di passaggio, il momento in cui attraverso il cambiamento si trapassa a nuova vita. Ed è in questo senso che la possibilità, l’avvenimento personale o collettivo —la fioritura, il matrimonio, il parto, la morte—si fanno rivoluzione. E in quanto rivoluzione, il momento di passaggio deve essere commemorato, qualsiasi esso sia, come un momento felice: perché ogni cosa che accade in vita è un evento, e come tale, si dovrebbe celebrarlo.
Durante il Carnevale non c’e posto per le lacrime, a patto che queste non si mischino alla gioia sfrenata del cambiamento, della consapevolezza dello star vivendo (e non solo respirando) aldilà della paura.
Perché ridere, vuol dire combattere la paura, non esserne immuni. Per Bachtin il riso è come un “dono di Dio offerto soltanto all’uomo” e come tale “è strettamente legato al potere dell’uomo su tutto il mondo e all’esistenza della ragione e dello spirito, che gli animali non hanno e solo l’uomo possiede”. Insomma, il riso è “manifestazione di sovranità sugli eventi” (Patrizi), la manifestazione più suprema di coraggio, attraverso la quale si può dominare perfino l’orrore che che ci circonda, la paura per il futuro, per le cose che ci ritroviamo ad affrontare.
In questo periodo difficile, in cui una pandemia mondiale ha stravolto le nostre vite, la paura ha bussato spesso alla nostra porta: la paura della malattia, la paura di perdere il proprio posto di lavoro, la paura di non poter più riabbracciare i propri cari, o anche solo di non poter più vivere la vita di prima.
La speranza spesso ci abbandona in certi periodi di caos oscuro, e avvolti nella nebbia dell’incertezza così come siamo, dimentichiamo che i riti di passaggio sono un’opportunità. L’opportunità di operare un cambiamento, a volte drastico, sofferto, o perché no, magari sperato, meditato a lungo. La stessa opportunità che ci permette di fare delle scelte, anche partendo da zero, un passo alla volta.
Ne l’epigrafe de I fratelli Karamazov, Dostoevskji riporta questo verso:
“In verità, in veritá vi dico: se il grano di frumento, cadendo in terra, non morrà, rimarrà esso solo; ma se morrà, apporterà gran frutto”
[Giovanni, XII, 24]
Come a dire che si deve prima cadere per poter rinascere: caderenella terra, che è allo stesso tempo tomba e ventre materno, dalla quale emergere senza ombra di terrore, purificati, come per effetto di un interiore Carnevale.