Cinquant’anni da Piazza Fontana: l’attacco alla convivenza civile e la fine dell’innocenza

Sono le 16.37 di un pomeriggio uggioso. Milano è frenetica, impegnata nei preparativi natalizi. La Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana, in pieno centro, è ancora affollata. E’ un venerdì di mercato, c’è chi si è fermato a depositare i guadagni della giornata di lavoro. La bomba è vicina, sotto il grande tavolo centrale, ma loro non possono vederla. Muoiono in 17, 87 i feriti. Contemporaneamente, a Roma esplodono altri 3 ordigni, altri 16 feriti. Era il 12 dicembre 1969. Cinquanta anni fa. 

Spartiacque nella storia italiana, la Strage di Piazza Fontana è la fine di un sogno, quel ‘68 della voglia di cambiamento, di ideali, di esserci, e il violento inizio di una stagione che ha impresso un’impronta indelebile. I parenti delle vittime sono per lo più contadini che non sanno cosa sia lo stragismo e non chiedono giustizia. Lo impareranno i loro figli, cresciuti nel terrorismo, nei golpe, negli attentati, anche di mafia, accomunati da un solo, centrale elemento: il depistaggio da parte delle istituzioni. Che inizia quando l’unica bomba trovata inesplosa quel 12 dicembre, alla Scala di Milano, che tanto poteva dire sugli esecutori materiali, viene fatta sparire. Quando si cercano i colpevoli solo a sinistra. Quando il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, dopo tre giorni di interrogatori, precipita dal quarto piano della questura e chi lo aveva in custodia parla di “malore”. Quando esponenti di spicco del SID si nascondono dietro il segreto di Stato. E’ questa l’eredità più grande della strage: la rottura del patto di fiducia tra Stato e società civile. Perché se qualcuno ha pensato, come si dirà, di stabilizzare destabilizzando, ha fallito. 

Non a caso è da qui che nasce il giornalismo d’inchiesta italiano. Sono i pistaroli, giovani penne che non fidandosi delle verità ufficiali fornite dalle istituzioni escono dalle redazioni e vanno sul campo, per sopperire alla mancanza di vere indagini riscontrata nelle autorità. La mobilitazione è ingente, tanto che il 23 dicembre 1969, a pochi giorni dalla strage, un folto gruppo di intellettuali si riunisce nel Club Turati a Milano per costituire il Comitato per la libertà di Stampa e la lotta contro la repressione. I giornalisti si fanno militanti. Ma il clima è teso, troppo. Nel 1970 c’è il primo attacco delle Brigate Rosse. Lotta Continua conduce una vera campagna d’odio nei confronti del commissario Luigi Calabresi, accusato della morte di Pinelli e per questo assassinato da un commando del giornale nel 1972, quando appena tre anni dopo sarà accertata l’estraneità del poliziotto ai fatti. Gli attentati si susseguiranno, di destra, di sinistra, ma con le stesse connivenze. Una guerra combattuta in tempo di pace. Una giustizia mai trovata.

Nel 2005 la Cassazione ha affermato che la strage fu realizzata dai neofascisti di Ordine Nuovo, capitanati da Franco Freda e Giovanni Ventura, non più processabili in quanto assolti con sentenza definitiva nel 1987. Nessuno ha pagato e tanto ancora non convince nella storia di una strage che ha cambiato per sempre l’Italia e che, come ha ricordato oggi il Presidente Mattarella, è stato “un attacco forsennato contro la nostra convivenza civile prima ancora che contro l’ordinamento stesso della Repubblica”. Una storia viva che è fondamentale ricordare.

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