Il cinema è stato uno dei settori più colpiti dalla crisi generata dal coronavirus.
Le sale sono riaperte ma c’è una diffusa incertezza, che ha reso l’affluenza assai più bassa rispetto ai mesi precedenti alla pandemia. Il festival di Venezia, tuttavia, ha ridato manforte al mondo del cinema che, si spera, possa riprendersi il prima possibile.
Attraverso le parole esperte di Paolo Del Brocco, amministratore delegato di Rai Cinema da diversi anni, che ringraziamo per la professionale gentilezza, ripercorriamo la crisi del settore, ragioniamo sull’oggi e proviamo a immaginare, ottimisticamente, un futuro post Covid-19 in ambito cinematografico.
Si è appena concluso il festival di Venezia. È stata un’edizione particolare, immagino. Un bilancio? Si respirava lo stesso clima degli anni precedenti?
Innanzitutto, è importante che il festival si sia tenuto; non era facile disporre l’organizzazione e devo ammettere che ha funzionato perfettamente. Inoltre, è stato un bene per il cinema non solo italiano, ma anche mondiale: si è ricominciato, è stato un nuovo inizio. Riprenderanno a uscire alcuni film nelle sale, senza le quali non esisterebbe più il cinema, ritornerà forte la presenza nel mondo dell’esercizio (ovvero le sale, n.d.r.). Ecco, allora, l’importanza di Venezia: strategica e psicologica, in primis, ossia un momento essenziale per il rilancio per l’industria.
Se mi domanda del clima, confesso che era diverso, però non poteva essere altrimenti; sedute distanziate, mascherine in tutti gli ambienti, la differenza si notava. Eppure, solo il fatto di stare lì, visto ciò che è successo nei mesi scorsi, vivere la normalità in una realtà che di normale ha ben poco, è stato importante.
Stare in sala, con la mascherina e con la consapevolezza della difficoltà dei tempi, mentre sullo schermo si susseguivano scene di una realtà pre-coronavirus, suppongo abbia fatto un certo effetto.
Senza dubbio. Anche se, in verità, ormai siamo abituati. Un anno fa tutto questo sarebbe stato assurdo, oggi invece è ritenuto quotidianità.
La cosa incredibile è che a Venezia la mascherina è diventata quasi più un gusto estetico, una moda. Il red carpet ha fatto da sfondo a mascherine particolari, griffate, alla moda, per l’appunto, a discapito delle usuali mascherine chirurgiche.
Se allarghiamo il discorso, non possiamo omettere l’impatto negativo della crisi sul mondo del cinema. Le sale sono riaperte, ma l’affluenza non è più quella di prima. C’è paura? Quanto ne ha risentito il settore?
L’affluenza non è al livello degli anni passati. La perdita economica causata dal virus, per di più, è stata devastante: in Italia il cinema vale circa 600 milioni di euro all’anno, si stima che entro dicembre ne andranno persi più o meno 200 o 250. Parliamo di 200/250 milioni di euro andati in fumo, inevitabilmente, nell’arco di dodici mesi.
Dal punto di vista della produzione, il lockdown ha fermato tutto. Ora un po’ di film sono ripartiti, con tutte le difficoltà relative ai protocolli di sicurezza. Certo è che a oggi è più lungo, più faticoso produrre un film: il cinema col distanziamento e coi tamponi non è facile.
Tuttavia, c’è un’attenzione enorme da parte del Ministero dei Beni Culturali, unita a una forte vicinanza manifestata tramite normative e decreti ad hoc. Ciò mi gratifica e dà la forza al settore di riprendere a muoversi, nonostante tutto.
Il lockdown ha generato un’impennata dei servizi streaming. Disney+ è stata lanciata in Italia proprio in quei mesi, ad esempio.
Ormai da anni le piattaforme digitali sono entrate in un rapporto di convivenza col cinema “da sala”. Il futuro si dirige verso una fruizione più comoda, da casa?
Il futuro è da capire. Io penso che il cinema non morirà mai: l’esperienza del cinema in sala non è paragonabile a nessun’altra modalità. Il fatto di andare in un luogo buio, illuminato solo dalle scene che s’inseguono sullo schermo, di immergersi nella storia, di sentire le emozioni e condividere tutto con altre persone sconosciute, non può esistere in nessun device, su nessuna piattaforma, con tutto il rispetto.
Il discorso, poi, riguarda anche il tema della tipologia del prodotto: premesso che tali supporti devono esistere perché sono complementari alla sala, tuttavia essi si pongono l’obiettivo di far vedere un prodotto standard, fruibile da tutti.
Manca il gusto local, il sapore delle storie locali.
In Europa il cinema è identitario, racconta la realtà di un Paese, narra una storia, piccola o grande che sia, descrive il nostro modo di essere. Questa identitarietà, se si producesse solo tramite device, andrebbe persa.
Pertanto, suddette piattaforme sono e devono rimanere integrative alla sala, non sostitutive.
Nei giorni correnti si discute molto delle nuove regole per gli Oscar: dal 2024 saranno premiati solo film “inclusivi”. Ovvero, sarà favorita l’equa rappresentanza di origine, genere, orientamento sessuale e persone con disabilità. Lei che ne pensa?
I film devono essere giudicati per il loro contenuto, per la capacità autoriale, per la qualità produttiva, quella degli attori, delle storie e della scrittura. Non si può giudicare una pellicola sulla base di criteri già confezionati, resi obbligatori e ai quali bisogna necessariamente conformarsi. Peraltro, gli USA sono una realtà già multiculturale, nella quale convivono per natura storie diverse. Il mix di culture, generi e via proseguendo già c’è; ridurre tutto ciò in percentuali, a livello di presenza nel cast, ad esempio, è piuttosto paradossale.
Non crede che la scelta possa derivare dalle criticità che da mesi affliggono gli Stati Uniti, in merito alle proteste a seguito della campagna “Black lives matter”?
Sì, potrebbe darsi. Il cinema è anche politica e gli USA stanno vivendo una situazione assurda. Forse è una reazione, un contributo che un posto più liberale, quale Hollywood, vuole apportare alla società.
Ha qualche idea, dal punto di vista professionale, su come far ripartire il settore? Oppure una considerazione che le preme condividere.
I modi per far riprendere l’industria ci sono e li stiamo mettendo in campo.
Al netto del fatto che il Covid-19 debba finire il prima possibile, sulla ripartenza sono abbastanza sereno.
Personalmente, ho un sogno: quando il virus sarà finito, vorrei che la gente facesse la fila fuori dalle sale. Il fatto di vivere un’esperienza collettiva, finalmente, spronerà le persone. Spero anche, più generalmente, in un cambio di pensiero: uscire, vivere all’aperto e stare con gli altri, dopo tutta la sofferenza dei giorni.
Mi auguro che ci sia la voglia di rilanciare il cinema. Se così sarà, non bisognerà incentivare nulla (purché i film prodotti siano di livello), le persone andranno molto volentieri al cinema, che è anche educazione sentimentale, sociale, morale. Vedere un film significa ricevere un’educazione alla bellezza, al racconto, alla storia. E questa consapevolezza rafforza la mia convinzione.