Chi ha paura della Cancel Culture?

Cristoforo Colombo cade al suolo, trovandosi improvvisamente con il naso troppo vicino all’asfalto; Vittorio Emanuele II, fiero ed elegante, si ritrova imbrattato di vernice, così come Indro Montanelli. Edward Colston, invece, scopre troppo tardi di essere stato gettato nelle acque del porto di Bristol, realizzando in pochi attimi di essere destinato ad affondare, in quanto fatto di bronzo.

Senza dubbio qualcuno avrà empatizzato con queste povere statue, colpevoli solamente di essere state erette in tempi diversi; non io o, almeno,  non per tutte. Per quanto trovi assurdo leggere Colombo con i valori odierni, sono allo stesso tempo poco convinta del mantenimento della statua di Montanelli a Milano, giornalista del Novecento di ideologia fortemente fascista e misogina; perlomeno, considero necessario prendere in considerazione l’aggiunta di un supporto storico ed esplicativo, che possa valorizzare il lavoro del giornalista ricordando, tuttavia, quanto la sua persona e i suoi valori fossero anacronistici, persino per i suoi tempi.

Questa è la mia idea che, nonostante tutto, cozza con quella di migliaia di persone nel mondo. Dunque, che farne dei segni pubblici del passato? Da quale parte stare nel dibattito sulla cancel culture?

Il termine inglese, che potrebbe suonare estraneo ad una grande fetta di italiani  distanti dalle dinamiche delle piattaforme social, viene coniato nel 2017 su Twitter, legato da subito alla comunità afroamericana (e in seguito strumentalizzato da Donald Trump proprio in relazione a questa). Per quanto moderna, la locuzione sta semplicemente a rappresentare varie forme di cancellazione, iconoclastia, rifiuto e censura, seppur non in termini giuridici.

Si tratta, dunque, di atteggiamenti noti da secoli ma coniugati al presente, soprattutto a causa della grande svolta degli ultimi anni, spesso legata ai social network, i quali  hanno portato con loro nuove problematiche e dibattiti.

Uno di questi ultimi riguarda proprio il paese che ha invaso l’Ucraina il 24 febbraio 2022, scatenando una delle peggiori guerre del XXI secolo: la Russia e tutto ciò che la riguarda.

Sono molti i casi, infatti, di aziende o importanti catene private che hanno deciso di interrompere i rapporti economici con il paese, chiudendo i propri negozi localizzati nell’area (come Prada, Louis Vuitton, Sephora e tanti altri); è lecito che i proprietari di marchi e grandi società decidano di dare un messaggio forte, facendo i conti con eventuali perdite o scontenti.

Diverso è il caso quando si tratta di organismi pubblici.

Lo scorso 3 marzo, proprio uno di questi è assurto alle cronache, quando l’Università statale Bicocca di Milano ha deciso di cancellare un corso di letteratura su Dostoevskij, in quanto autore russo, in un momento così delicato per il paese dell’Est. La notizia ha fatto scalpore, suscitando grandi polemiche e, poco tempo dopo, il corso è stato reintrodotto. Fino a qui tutto bene, il dipartimento si è accorto dell’errore e vi ha posto rimedio. Ma cosa ci dice tutto ciò sulla situazione della cancel culture? E quanto rischia di spingersi oltre i suoi limiti?

La decisione della Bicocca è apparsa esagerata e folle agli occhi di tutti, non sussistendo un legame tra il personaggio storico di Dostoevskij (ormai deceduto da tanti anni) e le scelte politiche e militari di Vladimir Putin; inoltre, è limpido ai più quanto sia errato cancellare la storia e la cultura per motivi ideologici e totalmente sconnessi da queste.

Ma se la censura di Dostoevskij sembra a tutti assurda e inopportuna, questo non riguarda altri casi, in cui la cancellazione è stata spesso accolta con favore; a questo proposito mi vengono in mente episodi di serie tv (come Scrubs o Community) rimossi dalle più note piattaforme di streaming, in quanto portatori di messaggi razzisti, in questo caso per scene di black face.

Rimanendo in tema audiovisivo, è noto a molti l’episodio di rimozione del film “Via col vento” dal catalogo di HBO qualche anno fa, nel tesissimo clima post omicidio di George Floyd. Al momento della sua reintroduzione, al film è stata aggiunta una didascalia iniziale, ricordando quanto i valori rappresentati fossero figli di altri tempi.

Forti polemiche si sono scatenate anche per quanto riguarda la storia di “Biancaneve”, film Disney degli anni ’30 replicato come spettacolo nei parchi a tema; proprio in uno di questi, due giornaliste si sono indignate di fronte alla rappresentazione del bacio non consensuale alla giovane priva di sensi, preoccupate che potesse dare il cattivo esempio ai bambini, futuri abitanti di un mondo – si spera – slegato da dinamiche antiche e retrograde.

È certo che il dibattito sul politicamente corretto divida ormai da qualche anno, trovandosi curiosamente trasversale a vari schieramenti politici e ideologie.

La domanda che viene da porci è questa: al di là della cancellazione di parti di storia e cultura, ovviamente scorretta e controproducente, è giusto che noi, in quanto pubblico, veniamo così sottovalutati?

C’è davvero bisogno di un disclaimer prima di film come “Via col vento” e “Biancaneve”, che ci ricordi quanto il film in questione sia frutto di tempi passati?

Credo che sia fondamentale, soprattutto oggi, valorizzare e sostenere l’intelligenza dello spettatore; in un mondo in cui la tecnologia sta prendendo sempre più il posto del ragionamento, quando è ancora possibile questo va incalzato e supportato, soprattutto nei piccoli.

Abbiamo imparato, da tragedie come l’Olocausto, quanto sia necessario e vitale ricordare, per non ripetere gli stessi errori; ecco, nutriamoci di tutto ciò. Impariamo la storia anche tramite i suoi prodotti, stimoliamo dibattiti su contesti storici differenti, arretrati e lontani, cercando di ritrovare nel presente gli stessi errori reiterati, per condannarli con maggiore consapevolezza.

Leggiamo Dostoevskij, amiamolo e, subito dopo, informiamoci sulla deriva politica della Russia, separando i due piani storici. Andiamo al cinema a vedere la versione restaurata di “Via col vento”, emozionandoci per il grande capolavoro quale è, integrandolo con tanti altri bellissimi film sulla guerra di secessione e la situazione degli schiavi nelle piantagioni del sud. Il mondo è talmente pieno di opere meravigliose sull’argomento che potremmo non stancarci mai di imparare.

Per quanto riguarda “Biancaneve”, la scelta di mostrarlo ai propri figli spetta tutta ai genitori. Mi sento però di dire questo: spero vivamente che l’obiettivo non sia quello di nascondersi dietro il velo di Maya di un film, nella paura di non aver trasmesso i giusti valori.

Da bambini, io e mio fratello abbiamo visto molti dei cartoni animati presi di mira negli ultimi anni (“Biancaneve”, “Dumbo”, “Gli Aristogatti”) divertendoci ed emozionandoci. Tuttavia, nessuno dei due ha mai desiderato emulare certi atteggiamenti o assimilare certi valori; pur nella nostra innocenza, ci rendevamo ben conto di quanto fossero lontani dalla realtà che conoscevamo e qualsiasi disclaimer sarebbe stato superfluo. La nostra educazione, quella profonda e solida, è nata da tanto altro, in primis l’insegnamento dei nostri genitori.

Concentriamoci dunque su quello, potenziamo l’attenzione pedagogica e cerchiamo di trasmettere fondamenta forti, tralasciando per un attimo i prodotti culturali e ricordando quanto un essere umano possa veramente fiorire quando la sua intelligenza viene rispettata.

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