La centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina, è tornata al centro dell’attenzione dopo la sua occupazione da parte delle truppe russe, allarmando le istituzioni internazionali sui possibili rischi di una nuova catastrofe nucleare.
In realtà, il rischio sembra essere basso, come ci tiene ad assicurare l’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica): “Nessun impatto critico sulla sicurezza”.
Il capo della diplomazia di Kiev, Dmytro Kuleba, aveva parlato di possibili nuove fughe radioattive a causa dell’interruzione della rete che porta la corrente elettrica alla centrale, la quale è necessaria per il raffreddamento dell’impianto di stoccaggio del materiale radioattivo.
Il 26 aprile 1986 esplose uno dei reattori della centrale, causando il peggior incidente nucleare della storia, a livello di uso civile. Le particelle radioattive, che si propagarono nell’aria circostante, furono cinquecento volte più letali di quelle prodotte dalle bombe nucleari che colpirono Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto 1945).
La città di Chernobyl fu evacuata e migliaia di tecnici furono inviati sul posto per cercare di contenere la fuga radioattiva. Molti di loro morirono in poche settimane o mesi per via di tumori e leucemie causate dalla radiazioni.
L’aria intorno alla centrale, la Chernobyl Exclusion Zone, è inabitabile nel raggio di 17 km. Nelle zone limitrofe, comunque contaminate, vivono ad oggi 5 milioni di persone, soggette a diverse patologie dermatologiche e respiratorie, ad infertilità e malformazioni.
Nonostante ciò, Chernobyl sembra essersi ripopolata di una folta flora e fauna. Diversi reportage fotografici mostrano volpi, bisonti o cavalli selvaggi vagare nei luoghi abbandonati dall’uomo.
Gli scienziati, però, sono divisi sulle reali conseguenze del nucleare sull’ambiente e gli animali.
Knowable ci spiega le contraddizioni tra testimonianze e studi specifici. Se dopo l’incidente nucleare i pini, nel raggio di 4 km dalla centrale, cambiarono colore, diventando rossi e poi marroni, per infine morire, nel giro di tre anni la vegetazione ricrebbe e anche la fauna ripopolò il territorio.
Agli inizi del 2000, i biologi Anders Møller e Timothy Mousseau dimostrarono come gli animali delle aree più radioattive avessero cervelli più piccoli, meno spermatozoi e più mutazioni genetiche della norma. Il numero delle specie risultava diminuito del 66%.
Studi successivi stabilirono che, solo nelle zone dove i picchi delle radiazioni erano molto alti, il numero delle specie fosse inferiore alla media. Probabilmente, da una parte la radioattività dall’altra la lontananza delle persone bilanciarono gli effetti sulla natura.
Inoltre, si è osservato che le mutazioni genetiche sugli animali potrebbero essere ereditari, e dovute all’esposizione di generazioni precedenti alle radiazioni dell’esplosione di Chernobyl e non, quindi, a radiazioni ancora presenti, oggi, nell’aria.
Molti animali, poi, sono riusciti ad adattarsi all’ambiente; per esempio, le raganelle qui sono più scure delle loro simili, perché producono più melanina, la quale permette loro di proteggersi dalle radiazioni.
Lo stesso accade alla vegetazione che ha una capacità molto superiore a quella umana di adattarsi a diverse condizioni, sia di luminosità, umidità, che temperatura.
Per ora la specie umana sembra essere quella più a rischio, estromessa dalla natura circostante.