Il mondo, ieri, si è svegliato con la morte tra le lenzuola, come a seguito di un incubo, una visione tetra, di quelle che si spera siano state vissute solo ad occhi chiusi. E invece no, aperti gli occhi il sudore freddo era reale, così come era vera la notizia dell’uccisione di Quasem Soleimani. Uomo importante per il Medio Oriente tanto quanto il petrolio ha valore per l’umanità. In effetti, “l’olio di roccia” (cioè il petrolio, nel composto di origine latina formato da “petra” e “oleum”) è la primaria fonte energetica per la vita. E al tempo stesso, se versato sulle ali di un essere vivente – un volatile -, le rende così pesanti da non farlo volare mai più, gli toglie la libertà. Lo uccide.
Le ali dell’Occidente sono state ricoperte dalla viscosità e dalla pesantezza del petrolio. Da ieri, l’Occidente rischia di perdere per molti anni l’uso del volo, nel cielo della pace e della stabilità. Fuor di metafora, la linea di confine tra l’accettazione silente da parte dell’Europa dei fuochi di guerra mediorientali già in atto e il possibilmente imminente scoppio di una crisi armata internazionale [suddetta linea] rischia di essere cancellata. L’Iran ha giurato vendetta contro gli USA e contro Israele, unico castello di roccia alle porte delle sabbie d’Oriente. Frattanto, Trump ha consigliato a tutti i cittadini americani in Iraq di fuggire in ogni maniera possibile e ordinato l’invio di altre truppe militari in territorio nemico. Dal fronte iraniano, sono bastate poco più di dieci ore perché venisse nominato il successore di Soleimani: ovvero, il suo ex vice, che da ieri ha preso il suo posto, con gli stessi obiettivi, la stessa strategia, la stessa formazione e con tanto livore in più verso il continente americano.
Come da aspettative, il prezzo del petrolio è schizzato e viceversa le borse mondiali sono crollate. L’Iran deve la propria economia all’export petrolifero: se Trump decidesse di agire sui porti iraniani, la situazione geopolitica potrebbe aggravarsi. Appena dopo la notizia del raid contro Soleimani, il prezzo di un barile di greggio è salito a circa 69 dollari, il più alto da settembre. L’eco della crisi energetica del 1973 è giunto alle orecchie di qualcuno, memore, che ricorda il dramma di quell’anno. È prematuro fare confronti di tale genere; è certo, tuttavia, che la questione è grave. I trasporti via terra, via mare e via cielo, la prosecuzione dei processi industriali, la vita collettiva e la vita individuale risentiranno senza dubbio dell’aumento dei prezzi. E l’oro nero sarà sempre più dorato e alle valutazioni dei mercati molto meno nero. Del resto, solo i latini potevano concedersi il lusso di riferirsi alla guerra con il termine bellum. Di guerre ne avevano molte, però i tempi erano tutt’altri. E la guerra, bella nel senso linguisticamente moderno, non può mai dirsi.
Tra la rabbia di Teheran e l’esultanza di Trump c’è il popolo mondiale, che si è accorto, come da incipit, di non aver vissuto un incubo nel sonno, ma di essersi svegliato con la consapevolezza della realtà. Così è: le conseguenze delle scelte di uno vengono pagate da tutti.
Adesso il compito sta, oltre che ovviamente nelle mani dei leader mondiali, anche nelle penne di chi fa informazione. Dare spazio alla verità e denunciare pubblicamente le scelleratezze.
D’altronde, come sosteneva qualcuno ai tempi del Vietnam, non ci saranno guerre, fin quando ci saranno giornalisti liberi.