Il New York Times ha fatto causa a Microsoft e OpenAI: l’accusa è quella di aver usato milioni di articoli per addestrare l’intelligenza artificiale, questo, secondo il Times, “minaccia la capacità del Times di offrire i propri servizi”.
Aldilà delle controversie e di quelli che saranno gli esiti processuali, ci rimane una piccola grande consapevolezza: l’AI è il frutto perfetto delle nostre imperfezioni umane, e come tale non sarà mai come noi, o volendo, noi.
L’intelligenza artificiale può e deve essere un auxilium, uno strumento per semplificarci la vita di tutti i giorni, ma non può sostituirci nelle nostre cose umane come scrivere e pensare, semplicemente perché ne è pronipote, derivazione codipendente: basti pensare a scribo, che prima di essere scrivere, ora digitare, era incidere, disegnare; questo perché, per scrivere arrivando solamente a sfiorare gli schermi dei nostri smartphone con i polpastrelli, ci abbiamo impiegato centinaia di migliaia di anni, a nostro modo ci siamo evoluti, o, come si direbbe ora, “allenati”, ma con i nostri tempi, non in anni luce, non secondo un metodo di apprendimento di un velocissimo “algoritmo”, che comunque discende da un “semplice umano”, matematico, del 9° secolo.
L’AI può calcolare il nostro metro stilistico e declinarlo, in questo senso potremmo lanciare una sfida tra James Joyce e l’intelligenza artificiale, come fosse una partita a scacchi tra il campione del mondo e un robot, ma ciò che mancherà sempre all’AI sarà lo scopo, un perché. Quel “perché” che fin dall’alba dei tempi è colui che tutto muove in noi: la curiositas e la necessità, il bisogno di indagare, di conoscere, di scoprire, di sapere, di esplorare, sentimento squisitamente umano che prima di essere candelina sulle vostre torte di compleanno, è stato fuoco bruciante nella mano di un nostro antenato che si è scottato per noi.
In questo senso, l’intelligenza artificiale può apprendere il coraggio di bruciare per un’idea, ma non potrà mai sentirlo suo: non sarà mai Giordano Bruno, Giovanna d’Arco, Girolamo Savonarola, Empedocle. Questo, come un uroboro, deve essere il punto di partenza e d’arrivo per il New York Times: ciò che ci distingue e ci rende insostituibili ed inimitabili sono le nostre mere fluttuazioni umane, una nostra esclusiva prerogativa.
La differenza tra noi e l’AI sono le nostre incorreggibili imperfezioni, i nostri controsensi, la nostra capacità di solidarizzare ed essere terribilmente egoisti, l’abilità di generare e sviluppare empatia verso tutto ciò che ci riguarda e sentiamo vicino, giacché, come diceva Francis Scott Fitzgerald: “la parte più bella della letteratura è scoprire che i tuoi desideri sono desideri universali, che non sei solo o isolato da nessuno”.
Nel mondo della scrittura, così come dell’arte, e per derivazione, del giornalismo, c’è un inderogabile bisogno di res humanae, ossia di tutte quelle peculiarità e caratteristiche proprie dell’essere umano: in questo senso, un lettore non potrebbe mai provare simpatia (dal greco soffrire insieme) o compartecipazione alle sofferenze di un “artificio”; questo perché “leggendo, non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma”.
Sulla carta, l’AI produrrebbe testi perfetti, ma sterili e infecondi, privi di ethos e pathos, in quanto, per dirla alla Leopardi, non sarebbero mai le umane “sudate carte” che sentiamo e nelle quali ci rassomigliamo, frutto di emozioni comunemente umane che scuotono il nostro profondo.
Queste sono caratteristiche proprie solo dell’essere umano: amiamo e odiamo come Catullo, siamo furiosi come l’Orlando di Ludovico Ariosto, inadeguati come lo Zeno Cosini di Italo Svevo, narcisi come il Dorian Gray di Oscar Wilde, determinati come Socrate, angosciati come Kierkegaard, nauseati come Sartre, eclettici come Tommaso Moro, ribelli come Democrito, geniali, dissacranti e folli come Nietzsche, razionali come Cartesio, tormentati come Leopardi.
Tendiamo da sempre verso la perfezione ma siamo fallaci, vanagloriosi, orgogliosi, invidiosi, ambiziosi, pigri, istintuali, desiderosi, perversi, passionali, viziosi, impazienti, ostinati, famelici, assetati, siamo tutti quell’Adamo che nel Giudizio Universale di Michelangelo anela continuamente a tangere il perfetto ma non vi riesce, perché il nostro segreto sta tutto qui… la nostra è una storia umana di imperfezioni, vita, morte, esperienze, errori, prodezze, sbagli, gesta, sbavature, cicatrici dalle quali impariamo sulla nostra carne: questo è ciò che ci rende vivi, unici e, in fin dei conti, ineguagliabili.